L’unità astronomica o la faticosa ricerca della distanza del Sole
Poche imprese scientifiche sono state così lunghe e difficili come la ricerca dell’esatta distanza tra la Terra e il Sole. Quello che segue è il racconto di quest’impresa: una storia di ingegno e perserveranza durata almeno 23 secoli
Le distanze in astronomia sono astronomiche, nel vero senso della parola. Anche se ci limitiamo a misurare il cortile di casa, cioè il sistema solare, abbiamo a che fare con abissi di spazio che si calcolano in miliardi di chilometri. Plutone, per esempio, ha un’orbita molto ellittica, in cui la distanza dal Sole varia da un minimo di 4.437.000.000 km a un massimo di 7.311.000.000 km. Maneggiare numeri così grandi non è pratico, così come non lo sarebbe esprimere la distanza tra Roma e New York in millimetri (per la cronaca, 7.216.000.000 mm).
Per rendere più semplice il raffronto delle distanze nel sistema solare, si usa perciò un’unità di misura molto più grande del chilometro, l’unità astronomica, abbreviata in au (dall’inglese “astronomical unit”), il cui valore è di circa 149.600.000 km, pari alla distanza media tra la Terra e il Sole. Espresse in unità astronomiche, le distanze di Plutone al perielio e all’afelio diventano molto più facili da maneggiare: 29,6 e 48,9 au rispettivamente.
Al di là della praticità, l’unità astronomica riveste un’importanza enorme nel calcolo delle distanze stellari. Conoscere il suo valore ha permesso, infatti, di calcolare la distanza delle stelle più vicine alla Terra con un metodo detto della parallasse trigonometrica. Gli astronomi compresero che, se una stella cambiava posizione nel corso dell’anno rispetto a uno sfondo di stelle fisse, ciò indicava che quella stella era relativamente vicina. Lo spostamento, sottratto l’eventuale moto proprio della stella, consisteva in un’oscillazione periodica annuale, legata al cambiamento del nostro punto di vista, a sua volta causato dal moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole. Misurando l’angolo di cui la stella si era spostata nel corso di sei mesi era possibile, con un banale calcolo trigonometrico, ricavare la distanza della stella. Quel banale calcolo richiedeva però che si conoscesse a priori, con la massima precisione possibile, la misura del cateto minore del triangolo rettangolo che ha per vertici la Terra, il Sole e la stella di cui misurare la distanza. Quel cateto è il semiasse dell’orbita terrestre, cioè la distanza media della Terra dal Sole: l’unità astronomica appunto.
Ci sono voluti ben più di duemila anni di tentativi, perché si riuscisse a calcolare tale distanza con un grado di precisione davvero elevato. La storia di questi tentativi è di per sé un monumento all’ingegno umano, che è riuscito in verità a tracciare i percorsi teorici per raggiungere la meta molto prima di sviluppare una tecnologia adeguata alla difficoltà dell’impresa.
Un genio chiamato Aristarco
Aristarco nacque a Samo, una delle maggiori isole della Ionia greca, intorno al 310 a.C. Di lui ci è arrivata un’unica opera, un breve trattato intitolato Sulle dimensioni e distanze del Sole e della Luna. Il trattato contiene un metodo per calcolare quante volte il Sole è più lontano della Luna dalla Terra, basato su una concezione straordinariamente moderna dei rapporti astronomici fra i tre corpi.
Aristarco aveva capito che la Luna riceve la luce dal Sole proprio come la Terra e che, quando la vediamo illuminata esattamente a metà, cioè come un quarto di Luna, allora l’angolo che essa forma con il Sole e la Terra è un angolo retto. Da ciò consegue che, se si riesce a determinare l’angolo che ha per vertice la Terra nell’immaginario triangolo rettangolo Luna-Sole-Terra, si può ricavare il rapporto tra le lunghezze dei lati, ovvero tra le distanze relative della Luna e del Sole.
Il metodo è corretto in teoria, ma era di difficilissima applicazione pratica, soprattutto in un’epoca pretecnologica come quella in cui visse Aristarco. In primo luogo, è improbo stimare a occhio quando il terminatore, la linea d’ombra che separa il giorno dalla notte, si trova esattamente a metà del disco della Luna. In secondo luogo, è persino più difficile calcolare l’angolo formato in quel preciso momento dalla posizione del Sole rispetto alla Terra. Aristarco stimò quell’angolo in 87 gradi, mentre oggi sappiamo che misura 89,853 gradi. Questa valutazione sbagliata portò a una notevole sottostima della distanza relativa del Sole. Ad Aristarco risultò che il rapporto tra le distanze Sole–Terra e Luna–Terra era maggiore di 18 e minore di 20 (non esisteva ancora la trigonometria, per cui i calcoli procedevano per approssimazioni successive). In realtà il rapporto è ben maggiore: sappiamo oggi che il Sole è 390 volte più lontano della Luna dalla Terra. Aristarco aveva dunque sottostimato di circa 20 volte quel rapporto, e di conseguenza la distanza del Sole dalla Terra, ma la colpa dell’errore andava ascritta non tanto all’idea in sé quanto alla mancanza di una tecnologia adeguata alla sua messa in pratica.
Dal fatto che le dimensioni angolari del Sole e della Luna ci appaiono pressoché identiche, Aristarco dedusse che il diametro del Sole doveva essere, similmente alla distanza relativa, tra 18 e 20 volte maggiore di quello della Luna. Poiché aveva anche stimato, sulla base della durata delle eclissi di Luna e dell’idea, corretta, che la Luna orbitasse intorno alla Terra, che il diametro della Terra era 2,85 volte quello della Luna, ne dedusse che il diametro del Sole doveva essere 19/2,85, cioè circa 6,7 volte quello terrestre. In realtà il Sole misura 109 diametri terrestri ed è perciò molto più grande di quel che aveva calcolato Aristarco. Ma anche 6,7 diametri terrestri erano una misura sufficientemente grande da giustificare perché, in anticipo sui tempi e ignorato dagli astronomi successivi, Aristarco pensasse che il Sole fosse al centro dell’Universo e che la Terra gli girasse intorno. Pare che fosse anche convinto che la Terra, sferica, ruotasse quotidianamente su se stessa e che l’alternarsi delle stagioni fosse dovuto all’inclinazione dell’asse di rotazione.
Archimede, ne L’Arenario, rese giusto merito alla grandezza di Aristarco, mostrando che i confini dell’universo immaginato dall’uomo di Samo erano immensamente più ampi di quelli tenuti per veri dagli altri astronomi:
Tu, o Re Gelone, sai che “universo” è il nome dato dalla maggior parte degli astronomi alla sfera al centro della quale è il centro della Terra, mentre il suo raggio è uguale alla retta che unisce il centro del Sole al centro della Terra. Questa è la versione comune che hai ascoltato dagli astronomi. Ma Aristarco ha pubblicato un libro contenente certe ipotesi da cui appare, come conseguenza delle assunzioni fatte, che l’universo è molte volte più grande dell’“universo” appena menzionato. Le sue ipotesi sono che le stelle fisse e il Sole restano immobili, che la Terra gira intorno al Sole percorrendo la circonferenza di un cerchio di cui il Sole occupa il centro, e che la sfera delle stelle fisse, che ha lo stesso centro del Sole, è così grande che il cerchio in cui egli suppone che la Terra si muova dista dalle stelle fisse tanto quanto il centro della sfera dista dalla sua superficie.
Il metodo di Cassini
I più grandi astronomi dell’antichità succeduti ad Aristarco, cioè Ipparco e Tolomeo, ottennero stime della distanza della Luna dalla Terra prossime al valore attuale. Tuttavia la loro stima della distanza del Sole rimase molto imprecisa e largamente sottostimata. Ipparco calcolò che fosse pari a 1.245 diametri terrestri. Sappiamo oggi, invece, che è 11.722 volte il diametro della Terra. Tolomeo la stimò ancora minore, fermandosi a 605 diametri terrestri.
Del resto, neppure i grandi astronomi che, molti secoli dopo Aristarco, diedero impulso alla nascita dell’astronomia moderna, riuscirono a raggiungere una precisione maggiore degli antichi nel calcolare la distanza del Sole. Copernico la stimò in 750 diametri terrestri, cioè meno di 10 milioni di km, Tycho Brahe in 8 milioni di km, Keplero in 24 milioni di km: tutti e tre sbagliarono gravemente per difetto.
Dobbiamo arrivare al 1659 perché qualcuno riesca finalmente a trovare un valore della distanza Terra-Sole ragionevolmente vicino alla misura corretta. Vi riuscì il grande matematico e astronomo olandese Christiaan Huygens, che descrisse il metodo usato in un’opera in latino intitolata Systema Saturnium. Huygens calcolò la distanza del Sole dalla Terra in 12.543 diametri terrestri, un valore errato per eccesso, ma solo del 7%: un balzo in avanti enorme, quanto a precisione, rispetto a tutti coloro che l’avevano preceduto nel tentativo.
Tuttavia, il risultato ottenuto da Huygens non ha un posto di rilievo nella storia della scienza, perché tutto l’edificio dei suoi calcoli era basato su un assunto iniziale puramente speculativo. L’assunto, indimostrato all’epoca di Huygens, era che il diametro di Venere fosse uguale a quello della Terra (oggi sappiamo che sbagliava di poco: è infatti intorno al 95% di quello terrestre). Avendo misurato con accurate osservazioni telescopiche che il diametro angolare di Venere era di 51 arcosecondi, Huygens usò quella misura e il diametro lineare del pianeta, assunto uguale a quello della Terra, per ottenere la distanza di Venere in diametri terrestri. Da qui, usando la correlazione tra distanze dei pianeti dal Sole e periodi orbitali definita da Copernico, ricavò la misura del raggio dell’orbita terrestre, cioè, appunto, la distanza della Terra dal Sole.
Fu l’astronomo italiano Giovanni Domenico Cassini, in seguito naturalizzato francese con il nome di Jean-Dominique, il primo a calcolare la distanza del Sole dalla Terra per mezzo di una procedura completamente scientifica, raggiungendo, in relazione all’epoca e ai mezzi disponibili, una notevole approssimazione al valore che oggi consideriamo corretto.
Cassini, divenuto direttore dell’Osservatorio di Parigi nel 1671, decise di sfruttare l’opposizione di Marte che si sarebbe verificata tra settembre e ottobre del 1672, per ottenere con il metodo della parallasse la stima più precisa possibile della distanza del pianeta rosso dalla Terra. Inviò così a Cayenne, nella Guiana Francese, un suo assistente, Jean Richer, con precise istruzioni per misurare, al tempo concordato, la posizione di Marte rispetto alle stelle di sfondo più vicine. Cassini, intanto, rimasto a Parigi con un altro assistente, Jean Picard, compì un’analoga misurazione con le medesime modalità impartite a Richer. Essendo nota con esattezza la distanza tra Parigi e Cayenne, e da questa la misura della corda che interseca la superficie terrestre passando per le due località, Cassini poté ricavare dallo spostamento angolare di Marte, registrato nel corso delle due misurazioni simultanee, la distanza di Marte dalla Terra, che risultò essere di circa 70 milioni di km.
La conquista di questa conoscenza permise poi di usare la terza legge di Keplero per ricavare, finalmente, la distanza della Terra dal Sole. La terza legge di Keplero stabilisce infatti un criterio di proporzionalità tra il quadrato dei periodi orbitali dei pianeti del sistema solare e il cubo dei semiassi maggiori delle loro orbite. Nota la durata dell’anno marziano (686,98 giorni terrestri), nota la durata dell’anno terrestre, nota ora anche la distanza di Marte dalla Terra, c’erano tutti gli elementi per ottenere la distanza del Sole, che Cassini calcolo in 138.370.000 km: un valore inferiore del 7,5% alla misura corrente dell’unità astronomica.
In quello stesso anno, un altro famoso astronomo, l’inglese John Flamsteed, sfruttò l’opposizione di Marte per condurre un calcolo analogo a quello compiuto da Cassini e dai suoi collaboratori. Usò però un metodo di gran lunga più comodo. Invece di spedire qualcuno dall’altra parte del mondo per misurare lo spostamento angolare di Marte, lasciò che fosse la Terra a compiere il viaggio al posto suo. Flamsteed misurò infatti la posizione di Marte nel cielo due volte, la seconda dopo che fu trascorso un certo numero di ore dalla prima misurazione. In quel frattempo, la posizione che egli occupava sulla superficie della Terra si era spostata di alcune migliaia di chilometri rispetto a Marte, in virtù del moto di rotazione del nostro pianeta. Conoscendo con una certa approssimazione la misura lineare dello spostamento dovuto alla rotazione terrestre, poté ricavare la distanza di Marte dallo spostamento angolare misurato e, così come aveva fatto Cassini, la distanza del Sole. Il valore finale ottenuto da Flamsteed, 130.000.000 km, benché piuttosto lontano dalla misura che oggi sappiamo essere corretta, era comunque in sufficiente accordo con il calcolo di Cassini per dimostrare la congruità del metodo e sancire il raggiunto possesso, da parte degli astronomi, di una conoscenza per la prima volta realistica delle dimensioni del sistema solare.
La parallasse solare e i transiti di Venere
La misurazione dell’esatta distanza del Sole ha a che fare con il calcolo della cosiddetta parallasse solare. Usando semplici formule trigonometriche, possiamo ricavare la lunghezza dei lati di un triangolo rettangolo, se conosciamo la misura di un solo lato e dell’angolo opposto. Immaginiamo un triangolo rettangolo che abbia per vertici il centro del Sole, il centro della Terra e un punto sulla superficie terrestre. Poiché conosciamo esattamente la misura del cateto minore (il raggio terrestre), possiamo ottenere la misura del cateto maggiore, cioè la distanza tra la Terra e il Sole, se riusciamo a misurare il piccolissimo angolo — detto angolo di parallasse — racchiuso tra quel cateto e l’ipotenusa del triangolo. In altre parole, occorre misurare l’angolo con cui il raggio terrestre appare visto dal Sole. Possiamo per fortuna ottenere lo stesso risultato, evitando di finire nebulizzati dalla radiazione solare, se misuriamo lo spostamento angolare del Sole che si osserva da due punti della Terra sufficientemente separati, purché sia nota con precisione la distanza tra quei due punti.
Purtroppo compiere la misurazione diretta della parallasse solare è estremamente difficile, soprattutto in mancanza di tecnologie sofisticate. Per questa ragione, nonostante fin dai tempi di Aristarco si fosse compresa l’importanza di misurare quell’angolo, il valore della parallasse solare ottenuto dagli astronomi antichi e anche dai primi moderni era tutt’altro che accurato. Per ovviare alla difficoltà della misurazione diretta, si ricorse allora a soluzione alternative, come per esempio quelle adottate da Cassini e Flamsteed, che misurarono la parallasse di Marte e da quella derivarono poi il valore della parallasse solare, ottenendo peraltro misure apprezzabilmente precise (9,5 secondi d’arco Cassini, 10 secondi d’arco Flamsteed).
Un nuovo metodo per ricavare con maggiore precisione la parallasse solare e, quindi, la distanza del Sole, fu proposto nel 1663 dal matematico e astronomo scozzese James Gregory nella sua Optica Promota. La proposta di Gregory fu poi ripresa e ampliata dal celeberrimo astronomo, fisico e matematico inglese Edmond Halley. In un articolo in latino, pubblicato nel 1716 su Philosophical Transactions of the Royal Society, Halley propose che l’intera comunità scientifica mondiale si mobilitasse per tempo, in modo da dislocare stazioni di osservazione in numerosi e distanti punti della Terra, per osservare i futuri transiti di Venere sul disco del Sole. A causa dell’inclinazione dell’orbita di Venere rispetto a quella terrestre, i transiti di Venere sono molto rari: si verificano a coppie, separati da otto anni, dopo intervalli molto più lunghi di 121,5 e 105,5 anni, secondo un ciclo che si ripete ogni 243 anni (i due più recenti sono avvenuti nel 2004 e nel 2012). Halley sapeva molto bene che non sarebbe vissuto abbastanza a lungo per partecipare direttamente alla campagna di osservazione che stava promuovendo. I due successivi transiti si sarebbero verificati infatti soltanto nel 1761 e nel 1769. Morì nel 1742, consegnando ai posteri il lascito ideale di mettere in pratica la sua proposta.
Nonostante la guerra in corso tra Inglesi e Francesi all’epoca del transito del 1761, governi e comunità scientifiche di tutto il mondo si mobilitarono per realizzare al meglio il piano congegnato da Halley. Una mobilitazione ancora più grande si verificò per il transito del 1769 e alla fine, nonostante infinite difficoltà, si riuscirono a ottenere misurazioni della parallasse solare e della distanza Sole–Terra generalmente più accurate di quelle ottenute da Cassini e Flamsteed un secolo prima.
Ma in cosa consisteva precisamente il metodo proposto da Halley? L’idea era quella di misurare con la massima precisione possibile l’orario del secondo e del terzo contatto del disco di Venere con il disco del Sole, da diversi punti della Terra dai quali il transito sarebbe stato visibile. Il secondo contatto è quello in cui il disco di Venere appare completamente dentro il disco solare mentre c’è, però, ancora un punto di sovrapposizione visuale tra i bordi dei due corpi. Il terzo contatto è quello in cui Venere ha raggiunto il bordo opposto del Sole, e lo tocca non avendo però ancora cominciato ad attraversarlo. Tra questi due punti, il pianeta si muove disegnando una corda sul disco molto più grande del Sole. Osservata da punti differenti della Terra, questa corda apparirà leggermente spostata, un po’ più lunga o un po’ più corta, e leggermente differente sarà la durata totale del transito, cioè il tempo che separa il secondo dal terzo contatto. C’erano ovviamente delle complicazioni di cui tenere conto. Per esempio, a causa dell’inclinazione dell’asse terrestre, vi sarebbero state zone della Terra in cui la velocità della rotazione terrestre si sarebbe sommata alla velocità del transito di Venere, rendendo l’intervallo da misurare più breve; vi sarebbero state altre zone, invece, in cui la rotazione terrestre sarebbe avvenuta in direzione contraria al transito, rendendo maggiore la durata del fenomeno. Ciò nondimeno, Halley era convinto che, se tutti gli osservatori avessero preso scrupolosamente gli orari di inizio e fine del transito, sarebbe stato possibile trattare matematicamente quel complesso di dati, in modo da ricavare la parallasse di Venere, e da quella la parallasse solare, con una precisione di una parte su 500.
Osservatori dislocati in molte parti del mondo, a volte dopo peripezie incredibili, portarono a compimento con diseguale fortuna le misurazioni pianificate da Halley circa mezzo secolo prima. Vi furono molte ragioni che spiegano la mancanza di accordo finale degli scienziati sulla misura della parallasse solare, quando fu il momento di tirare le somme dei risultati delle osservazioni compiute durante i due transiti del 1761 e del 1769. Ma un motivo in particolare pesò più degli altri: il terribile fenomeno della “goccia nera”. Quando Venere era sul bordo del Sole, non si riusciva a cogliere il momento esatto del contatto e del distacco: il bordo del disco solare e il piccolo disco del pianeta sembravano collegati da una specie di ponte elastico, come una goccia che si allunga prima di staccarsi, sospesa tra due corpi che si allontanano lentamente. Secondo la teoria oggi più accreditata, la “goccia nera” appariva per una somma di cause concomitanti: innanzitutto la diffrazione della luce, probabilmente dovuta all’atmosfera di Venere, poi le cattive ottiche dei telescopi del tempo, infine la turbolenza dell’atmosfera terrestre. Ciò che importa è che la “goccia nera” contribuì a rendere incerta la determinazione del momento iniziale e del momento finale dei transiti di Venere del 1761 e del 1769.
Seguirono così anni di complicati calcoli e di dispute accademiche. Il transito del 1761 era stato osservato da almeno 62 stazioni differenti e quello del 1769 da più di 77. La messe di dati accumulata era straordinariamente elevata per l’epoca. Occorreva trovare valide strategie di analisi, per dare il giusto peso a ciascuna delle numerose variabili e fonti di errore che influivano sul calcolo finale della parallasse solare. Lo svizzero Eulero, dotato di straordinario talento matematico, fu quello che ottenne la migliore approssimazione alla misura corrente. Nel 1770, pubblicò un valore di 8,82 secondi d’arco per la parallasse solare, che corrispondeva a una distanza di 151.225.000 km: circa l’1% in più del valore ottenuto oltre duecento anni dopo, alla fine del XX Secolo. Altri studiosi ottennero risultati che, col senno di poi, appaiono meno precisi, ma tutti i valori proposti per la parallasse solare concordavano nella cifra più significativa, 8 secondi d’arco, limitandosi le discrepanze a decimi o centesimi di secondo.
Alla luce di ciò che sappiamo oggi, la campagna di osservazioni dei transiti di Venere del 1761 e del 1769 può considerarsi un successo, non solo organizzativo, ma scientifico, perché, pur con tutti i limiti delle tecnologie e delle strategie di analisi dei dati dell’epoca, permise di migliorare notevolmente la misura della parallasse solare, rispetto ai risultati ottenuti nel 1672 da Cassini e Flamsteed.
Farlo con gli asteroidi
L’angolo sotteso dalla parallasse solare è veramente minuscolo: corrisponde più o meno allo spostamento che noteremmo guardando alternativamente con l’occhio destro e poi col sinistro un oggetto lontano oltre un chilometro e mezzo. A parte la difficoltà intrinseca di osservare direttamente il Sole, vale il principio che, quanto più un corpo orbitante intorno al Sole è vicino alla Terra, tanto maggiore sarà l’angolo di parallasse che potremo misurare e più facile, perciò, derivare, grazie alla terza legge di Keplero, il valore che realmente interessa trovare, cioè la parallasse solare.
Sulla base di questo principio, dal XVII Secolo in poi gli astronomi utilizzarono attivamente le opposizioni di Marte e i transiti di Venere, situazioni in cui entrambi i pianeti si trovano più vicini a noi rispetto al Sole, per calcolare con la maggior accuratezza possibile la parallasse solare. Ma c’erano altri oggetti in orbita intorno al Sole che finivano talvolta per avvicinarsi alla Terra come e più di Marte e Venere: gli asteroidi. Inoltre, un asteroide osservato al telescopio appariva come un oggetto puntiforme, del quale era possibile misurare esattamente la posizione in un preciso istante: si poteva così eliminare la fastidiosissima incertezza temporale causata dalla “goccia nera”, che aveva influito sulle osservazioni dei transiti di Venere.
Fu proprio grazie alla misurazione della parallasse di alcuni asteroidi che si riuscì a ottenere, verso la fine del XIX Secolo, una misura dell’unità astronomica così precisa da essere considerata lo standard di riferimento per quasi un secolo. Sir David Gill nacque ad Aberdeen in Scozia nel 1843. Folgorato dalle lezioni di James C. Maxwell, decise di mettere le sue capacità di provetto orologiaio al servizio della ricerca astronomica. Formatosi come autodidatta dopo aver interrotto gli studi per vicissitudini familiari, dedicò praticamente la sua intera carriera di astronomo alla ricerca della parallasse solare, viaggiando attraverso i continenti insieme alla moglie per realizzare il suo progetto. Nel 1889 organizzò una campagna internazionale di osservazioni dedicata a tre asteroidi: Iris, Victoria e Saffo. Dal calcolo della parallasse dell’asteroide Victoria, ricavò il valore di 8,801 secondi d’arco per la parallasse solare, che corrispondeva a una distanza media Sole–Terra di 149.480.000 km: secondo i calcoli di Gill, il Sole era dunque 1.745.000 km più vicino di quanto avesse stimato Eulero un secolo prima, basandosi sul transito di Venere del 1769.
Sarebbe stato tuttavia possibile ottenere una precisione ancora maggiore, se si fosse potuta misurare la parallasse di un asteroide ancor più vicino alla Terra. L’asteroide ideale per un simile esperimento apparve pochi anni dopo le misurazioni di Gill: si trattava di Eros, scoperto indipendentemente nella stessa notte del 13 agosto 1898 dal tedesco Gustav Witt e dal francese Auguste Charlois. 433 Eros è un cosiddetto NEA (Near-Earth asteroids), uno dei circa 9000 asteroidi attualmente noti, le cui orbite, gravitazionalmente instabili sul lungo periodo, portano questi corpi ad avvicinarsi notevolmente al nostro pianeta. L’orbita ellittica di Eros conduce l’asteroide, quando è in opposizione al Sole, fino a pochi milioni di chilometri dalla Terra. L’ultima volta è accaduto nel 2012, quando ha toccato, il 31 gennaio, la distanza minima di 26.729.000 km. Simili avvicinamenti si erano verificati anche nel 1901 e nel 1931 e furono ovviamente sfruttati dagli astronomi dell’epoca per misurare con grande precisione la parallasse dell’asteroide e ricavare da quella la parallasse solare.
Nel 1928 l’International Astronomical Union (IAU) aveva istituito un’apposita commissione, presieduta dall’Astronomo Reale sir Harold Spencer Jones, dedicata a pianificare fin nei minimi dettagli la campagna internazionale di osservazioni di Eros, che si svolse tra ottobre 1930 e maggio 1931. La commissione selezionò in anticipo migliaia di stelle, che furono usate come riferimenti per misurare gli spostamenti parallattici di Eros nel corso del suo passaggio ravvicinato. Parteciparono alla ricerca 24 osservatori astronomici di 14 diverse nazioni, producendo un totale di 2847 lastre fotografiche. Alla fine, dopo complicate analisi dei dati raccolti, Spencer Jones propose il nuovo valore della parallasse solare ricavato dallo studio dell’asteroide Eros: 8,79 secondi d’arco. Il valore determinato da Gill qualche decennio prima, 8,80 secondi, che la Conferenza di Parigi del 1896 aveva assunto come riferimento ufficiale per la determinazione dell’unità astronomica, differiva di un solo centesimo di secondo d’arco. Eppure bastava quel centesimo in meno per “allontanare” il Sole di circa 170.000 km. In base al valore di parallasse definito da Spencer Jones, e alla misura del raggio terrestre di 6378,37 km trovata nel 1909 da Hayford, la nuova distanza del Sole risultava ora essere 149.673.820 km (con un errore in più o in meno stimato in 17.000 km).
Eugene Rabe, un astronomo dell’Osservatorio di Cincinnati, riesaminò successivamente tutti i dati delle osservazioni di Eros tra il 1926 e il 1945, applicando una correzione in cui teneva conto degli effetti gravitazionali della Terra, di Marte, di Mercurio e di Venere sull’orbita di Eros. Ciò lo condusse a rideterminare la distanza del Sole in 149.530.000 ± 10.000 km.
La superiore precisione del radar
Verso la fine degli anni Cinquanta la costruzione di grandi antenne paraboliche e il perfezionamento della tecnologia radar permisero un salto di qualità decisivo nella misurazione della distanza del Sole. Fu possibile raggiungere un livello di precisione che non era alla portata dei classici metodi trigonometrici: grazie ai radar, l’incertezza nella determinazione dell’unità astronomica poteva essere ridotta entro i soli limiti dell’incertezza della velocità della luce nel vuoto. Per esempio, in un articolo del 1962 (The Astronomical Unit Determined by Radar Reflections by Venus), gli autori di un esperimento di misurazione dell’unità astronomica tramite impulsi radar spiegavano che il valore da loro adottato per la velocità della luce nel vuoto, 299.793 ± 0,3 km/s, si rifletteva, per via di quel ± 0,3, in un’incertezza di ± 150 km nel valore dell’unità astronomica. Ciò rappresentava evidentemente un limite al livello di accuratezza della misurazione, ma un limite talmente contenuto da essere senza confronti preferibile alle pesanti incertezze, nell’ordine delle migliaia di chilometri, legate alle misurazioni classiche della distanza del Sole.
Il sistema adottato per stimare con questa nuova tecnologia la lunghezza dell’unità astronomica si basava sull’invio di una serie temporizzata di impulsi radar verso il pianeta Venere, quando questo si trovava nella posizione di congiunzione inferiore, cioè alla minima distanza possibile dalla Terra. Il treno di impulsi radar, viaggiando alla velocità della luce, impiegava circa 2 minuti e 18 secondi per raggiungere Venere. Riflessi dalla superficie del pianeta, gli impulsi radar tornavano verso la Terra, impiegando il medesimo tempo. Il “trucco” consisteva nel lanciare gli impulsi per un tempo totale inferiore al viaggio di andata e ritorno della luce e nel mettere subito dopo l’antenna in funzione di ricezione, giusto in tempo per ricevere gli impulsi riflessi da Venere. La procedura era ripetuta numerose volte di seguito, simulando un po’ la tecnica del giocoliere, che lancia e raccoglie le palle una dopo l’altra con il giusto ritmo perché il gioco vada avanti senza interruzioni.
Una volta terminato l’esperimento, se i segnali riflessi ricevuti erano chiari e inequivocabili, bastava dividere per due il tempo intercorso tra l’invio di un segnale e la ricezione della sua eco, per ottenere — essendo nota esattamente la velocità della luce — la distanza precisa di Venere, al momento in cui gli impulsi provenienti dalla Terra avevano impattato la sua superficie. Conoscendo poi, grazie alla terza legge di Keplero, il rapporto proporzionale tra le orbite di Venere e della Terra, era possibile ricavare la distanza esatta del Sole.
Tra il 1961 e il 1964 furono compiuti in Inghilterra, Stati Uniti e Unione Sovietica vari esperimenti indipendenti basati sulla trasmissione di impulsi radar verso Venere. Tenute nel giusto conto le inevitabili oscillazioni nei risultati finali, dovute alla novità della tecnica, alle differenze negli impianti e nelle metodologie utilizzate, ciò nondimeno la misura dell’unità astronomica ricavata dai vari esperimenti era straordinariamente uniforme, a testimonianza della validità e dell’affidabilità dell’uso del radar come “metro” per misurare il sistema solare.
Tutte le misure ottenute da inglesi, russi e americani erano comprese tra un minimo di 149.596.000 km e un massimo di 149.600.600 km. Fu pertanto costituito nel 1963, in seno alla IAU, un gruppo di lavoro per ridefinire l’unità astronomica sulla base delle misurazioni ottenute tramite radar. In un incontro avvenuto ad Amburgo nell’estate del 1964, gli esperti del gruppo di lavoro esaminarono i risultati degli ultimi esperimenti. Pettengill riportò un valore di 149.598.000 km, Muhleman di 149.598.500 km. In entrambi i casi, l’errore complessivo era stimato in ± 100 km, di gran lunga minore di qualsiasi rilevazione precedente. Tuttavia, la raccomandazione finale del gruppo di lavoro, poi accettata dall’assemblea generale della IAU, fu di fissare la misura dell’unità astronomica al valore leggermente superiore di 149.600.000 km.
Comunque sia, la nuova tecnologia radar aveva vinto sui metodi trigonometrici tradizionali. E si trattava di una vittoria giustificata dai fatti. Nel 1962 la sonda Mariner 2 della NASA diretta verso Venere finì fuori rotta. Furono inviati tramite antenne terrestri dei comandi per rimettere Mariner 2 sul giusto percorso, cosa che avvenne senza ulteriori errori, dopo una manovra di correzione di rotta durata 34 minuti. Se nei comandi inviati alla sonda fosse stato usato il valore dell’unità astronomica calcolato in passato da Rabe sulla base degli spostamenti parallattici dell’asteroide Eros, invece della misura ottenuta dal JPL tramite impulsi radar, Mariner 2 avrebbe oltrepassato Venere, mancando totalmente il bersaglio e mandando così in fumo la missione.
In anni più recenti, usando in particolare le rilevazioni radar eseguite per mezzo delle sonde inviate su Marte (Viking, Pathfinder, Odyssey) e su Saturno (Cassini), la determinazione dell’unità astronomica ha raggiunto una precisione nell’ordine del metro: l’equivalente di una parte su 150 miliardi! In un articolo del 2005, l’astronoma russa Elena V. Pitjeva riporta un valore dell’unità astronomica espresso in metri pari a 149.597.870.696 ± 0,1 m. Nello stesso articolo è citato il valore alternativo riportato da E. Myles Standish del JPL nello stesso anno, che differisce appunto di un solo metro: 149.597.870.697 m. Riferito a queste misure, il valore della parallasse solare corrisponde a 8,794 secondi d’arco.
L’unità astronomica dal 1976 al 2012
La ricerca di un valore sempre più preciso dell’unità astronomica ha attraversato i secoli, producendo un immenso sforzo individuale e collettivo da parte di generazioni di astronomi, impegnate in osservazioni e calcoli di ogni tipo pur di arrivare in qualche modo alla meta. Ciò che ha accomunato le infinite declinazioni di questo immenso sforzo dell’ingegno umano non è stato tanto il bisogno di disporre di una nuova e più affidabile unità di misura quanto quello di comprendere, finalmente, le dimensioni reali dell’universo di cui siamo parte, a cominciare dal sistema solare. Aristarco, Eratostene, Ipparco, Tolomeo, Copernico, Tycho Brahe, Keplero: nessuno di loro aveva una nozione precisa di quali fossero le effettive distanze tra quei corpi di cui pur conoscevano perfettamente i movimenti nei cieli. Fu solo con Huygens, Cassini e Flamsteed che cominciò ad apparire in tutta la sua enormità l’abisso di spazio che separa la Terra dal Sole e dagli altri corpi del sistema solare.
Ma in tempi recenti, soprattutto dopo l’avvento delle misurazioni radar e l’inizio dell’esplorazione spaziale, la questione principale non fu più quella di determinare con la massima precisione possibile l’angolo di parallasse del Sole, per trovare poi la distanza che si combini trigonometricamente con quell’angolo e con il raggio terrestre. Divenne, invece, quella di stabilire un’unità di misura convenzionale della lunghezza, utile nei calcoli di meccanica celeste, che fosse pienamente compatibile con le costanti di tempo e di massa già esistenti. Questo cambio di priorità portò la IAU a ridefinire nel 1976 l’unità astronomica, disancorandola dalla necessità di trovare sempre maggiori approssimazioni della distanza media della Terra dal Sole.
La nuova definizione stabilì che l’unità astronomica è
uguale alla distanza dal centro del Sole alla quale una particella di massa trascurabile, in un’orbita circolare non perturbata, avrebbe un moto medio di 0,01720209895 radianti/giorno.
Data la massa del Sole (1,9891×10³⁰ kg) e data la durata del giorno standard definita nel SI (86.400 secondi), quel moto medio si avrebbe ad esattamente 149.597.870,691 km dal Sole, distanza che è dunque il raggio dell’orbita di quella ipotetica particella di massa trascurabile e il corrispettivo in chilometri della definizione di unità astronomica adottata nel 1976.
Ma da dove viene quello strano numero, 0,01720209895? È il valore della costante gravitazionale di Gauss, indicata con k, che rappresenta la frazione di orbita circolare percorsa in un giorno di 86.400 secondi da un corpo di massa trascurabile, che giri intorno al Sole in un anno gaussiano, cioè in 365,2568983 giorni: guardacaso, la durata media dell’anno terrestre (365 giorni e 6 ore).
L’unità astronomica fu dunque ridefinita in termini di altre unità, non direttamente come una misura di lunghezza. La ragione di ciò si può trovare nelle parole del già citato E. M. Standish, esperto di meccanica celeste, che in un articolo del 2004 scriveva:
In fisica si adottano unità di lunghezza, massa e tempo (cgs, per esempio); gli esperimenti forniscono poi il valore della costante gravitazionale, G. In astronomia, poiché nel sistema solare un periodo, ovvero un moto medio, è misurato molto più facilmente di una distanza, le unità adottate sono state scelte in modo da essere quelle di una massa solare, un giorno solare medio e la costante gravitazionale (= k²). L’unità astronomica è allora l’unità di lunghezza che è compatibile con le altre tre. Come tale, è il risultato di una convenzione; non è una quantità definita.
Un’equazione che correla l’unità astronomica alle altre unità è la terza legge di Keplero, n²a³ = k²M. Per una particella (priva di massa) in moto kepleriano a 1 au dal Sole, abbiamo a = 1 e M = 1, sicché il moto medio è n = k. Pertanto, il periodo è semplicemente P = 2π/k = 365,2568983… giorni; ecco la fonte del numero (irrazionale) nella “definizione” sopra citata.
L’aver “eternato” l’unità astronomica in una definizione astratta e convenzionale, sottraendola alla dinamica dei cambiamenti fisici naturali dei corpi celesti e agli approfondimenti progressivi della conoscenza astronomica, fu forse utile ai fini della standardizzazione dei sistemi di calcolo, ma aveva una curiosa conseguenza: l’unità astronomica era destinata a diventare sempre meno rappresentativa di ciò che originariamente designava, cioè la separazione media tra il nostro pianeta e il Sole.
L’anno gaussiano è infatti leggermente più lungo dell’anno siderale (l’intervallo di tempo che occorre alla Terra per ritornare esattamente nella stessa posizione rispetto alle stelle fisse): 365,2568983 giorni contro 365,256363004. L’orbita terrestre è poi ellittica, non circolare. Ciò fa sì che la distanza del nostro pianeta dal Sole vari da un minimo di 0,98329134 au al perielio a un massimo di 1,01671388 au all’afelio. A causa di ciò, neppure il semiasse maggiore dell’orbita corrisponde esattamente a un’unità astronomica: è infatti leggermente più lungo (1,00000261 au).
E in futuro le differenze sono destinate ad aumentare. Il Sole, infatti, a causa della radiazione, dell’emissione di neutrini e del vento solare, perde costantemente massa, a un ritmo che è stato calcolato in 5,75 milioni di tonnellate al secondo. Tantissimo in proporzione alla scala umana delle cose, ma relativamente poco per un corpo gigantesco e massiccio come il Sole: corrisponde infatti a una perdita di massa annuale di “solo” 9,13 centomillesimi di un miliardesimo della massa solare totale. Tuttavia, la costante perdita di massa del Sole implica che il valore standardizzato della costante di massa solare diventa anno dopo anno meno rappresentativo della massa solare reale. Ciò avrà, anzi sta già avendo, degli effetti sull’attrazione gravitazionale che il Sole esercita sui corpi del sistema solare. L’attrazione solare diminuisce, infatti, proporzionalmente alla perdita di massa: per conseguenza, le orbite dei pianeti si espanderanno, i periodi orbitali aumenteranno di durata, mentre l’unità astronomica, così come fu definita nel 1976, corrisponderà sempre meno alla distanza media del Sole dalla Terra.
Vale la pena di ricordare, tuttavia, per amore di chiarezza, che tutti questi effetti, descritti con dovizia di particolari in uno studio di Peter D. Noerdlinger, sono trascurabili su una scala temporale umanamente significativa: dal 3000 a.C. al presente, secondo Noerdlinger, la variazione del semiasse maggiore dell’orbita terrestre dovuta alla perdita di massa del Sole sarebbe stata compresa tra 68 e 78 metri in tutto. Su circa 150 milioni di km.
L’unità astronomica oggi
Ma, per quanto lieve nelle conseguenze, il disancoramento dell’unità astronomica dalla misura della effettiva distanza Terra-Sole era comunque una soluzione troppo artificiale per poter durare.
Ne prese atto la XXVIII Assemblea Generale della IAU, conclusasi a Pechino il 31 agosto 2012.
Delle quattro risoluzioni che furono adottate dall’Assemblea, una era particolarmente importante: la risoluzione B2, che ridefiniva l’unità astronomica, eliminando ogni riferimento alla costante di Gauss. Con la decisione adottata dalla IAU si tornava dunque a definire l’unità astronomica direttamente in termini di lunghezza, non più come una costante derivata. La differenza importante col passato era che il nuovo valore adottato ufficialmente — 149.597.870.700 metri — teneva conto anche della relatività generale.
Siamo giunti dunque alla fine di questa lunga storia, che ci ha condotti dal genio di Aristarco fino alla precisione millimetrica delle misurazioni radar. L’impresa di determinare la distanza esatta della Terra dal Sole può dirsi conclusa con successo. Possediamo oggi le conoscenze scientifiche e gli strumenti tecnologici per tenere sotto controllo costante le variazioni anche più minuscole dell’unità astronomica: non male, tutto sommato, per una curiosa specie di primati, scesa dagli alberi appena qualche milione di anni fa.