Il Sole dà i numeri

Come funziona il Sole: tutto quel che c’è da sapere sulla fusione nucleare nella nostra stella durante la sequenza principale

Michele Diodati
46 min readOct 19, 2015

Il Sole è un grande meccanismo naturale che, a somiglianza degli esseri viventi, è in grado di trasformare massa in energia. Lo fa da miliardi di anni con sorprendente regolarità e continuerà a farlo per altri miliardi di anni. Ma aumenterà anche gradualmente di dimensioni e di luminosità fino a rendere la Terra arida e inabitabile. Ci rimane in realtà “solo” un miliardo di anni per fare i bagagli e trovare un altro pianeta da colonizzare.

Quando parliamo di vita del Sole (o di qualsiasi altra stella), ci riferiamo specificamente all’arco temporale in cui le condizioni fisiche al suo interno rendono possibile quel processo di trasformazione della materia e di generazione dell’energia che è la fusione nucleare. È questa la fonte di energia che mantiene il Sole in equilibrio idrostatico, contrastando la tendenza a collassare sotto la spinta della sua stessa gravità, e fa della nostra stella una fonte costante di luce e di calore.

Ma cosa innescò la fusione nucleare nel Sole e la mantiene attiva da miliardi di anni? Come funziona esattamente il meccanismo di produzione dell’energia al centro della nostra stella? Quanta energia è in grado di generare? Quanto a lungo durerà?

Questo articolo cerca di fornire una risposta divulgativa e al tempo stesso esauriente a tutte queste domande, con un accento particolare sulle curiosità e i numeri, immancabilmente grandi, che riguardano la “macchina”-Sole: numeri attinti dalle fonti scientifiche più recenti oppure ricavati con semplici calcoli dai dati disponibili.

E, a proposito di (grandi) numeri, è meglio cominciare subito a prendere confidenza con le grandezze con cui avremo a che fare tra poco.

             Termini usati per descrivere grandi numeri1 miliardo     = 10⁹  = mille milioni
1 bilione = 10¹² = mille miliardi
1 biliardo = 10¹⁵ = mille bilioni
1 trilione = 10¹⁸ = mille biliardi
1 triliardo = 10²¹ = mille trilioni
1 quadrilione = 10²⁴ = mille triliardi
1 quadriliardo = 10²⁷ = mille quadrilioni
1 quintilione = 10³⁰ = un milione di quadrilioni
1 quintiliardo = 10³³ = un miliardo di quadrilioni
1 sestilione = 10³⁶ = un bilione di quadrilioni
1 sestiliardo = 10³⁹ = un biliardo di quadrilioni
1 settilione = 10⁴² = un trilione di quadrilioni
1 settiliardo = 10⁴⁵ = un triliardo di quadrilioni
1 ottilione = 10⁴⁸ = un quadrilione di quadrilioni
1 ottiliardo = 10⁵¹ = un quadrilione di quadriliardi
1 novilione = 10⁵⁴ = un quadriliardo di quadriliardi
1 noviliardo = 10⁵⁷ = un quadriliardo di quintilioni
1 decilione = 10⁶⁰ = un quintilione di quintilioni
1 deciliardo = 10⁶³ = un quintilione di quintiliardi

Massa, densità, pressione, temperatura

Gli astronomi sono comunemente concordi nel ritenere che l’innesco e il successivo mantenimento delle reazioni di fusione nucleare nelle stelle richiedano essenzialmente tre condizioni:

  • l’addensarsi di una gran quantità di materia (per lo più idrogeno e elio), sottoposta a
  • un’altissima temperatura e a
  • un’enorme pressione.

La forza di gravità è lo strumento che crea queste condizioni. È la forza di gravità che, circa 4,6 miliardi di anni fa, favorì il progressivo addensarsi della protostella che poi divenne il Sole. Nel corso del lungo tempo trascorso per completare il processo di condensazione, prima che si accendesse il motore nucleare alimentato dall’idrogeno, il proto-Sole si limitava a emettere, per lo più nell’infrarosso, la radiazione prodotta dal collasso gravitazionale a cui era sottoposto.

Quando infine la temperatura del nucleo raggiunse all’incirca i 10 milioni di gradi, si avviò finalmente il processo di fusione dell’idrogeno in elio, che ancora oggi alimenta la nostra stella. È l’epoca dell’accensione di questo motore nucleare che segna l’arrivo del Sole sulla sequenza principale, la fase più stabile e duratura della vita di una stella.

Da qui in avanti ci occuperemo esclusivamente di ciò che avviene nel Sole durante questa fase. Parleremo di fenomeni che hanno a che fare con il calore, la pressione, la densità, il tempo, la distanza, la massa, la superficie, il volume. Alcune delle unità di misura che si usano per descrivere queste grandezze non sono proprio di uso quotidiano: ecco dunque una breve guida, da usare come riferimento rapido durante la lettura dell’articolo.

                          Unità di misura1 N    (newton) = la forza necessaria a imprimere a un kg
di massa un'accelerazione di un metro
al secondo per secondo (cioè un metro al
secondo al quadrato)
1 J (joule) = l'energia impiegata per esercitare la forza di
un newton per la distanza di un metro
1 W (watt) = la potenza necessaria per erogare un joule
al secondo (= 1 J/s)
1 Wh (wattora) = l'energia necessaria a fornire 1 W per
un'ora (= 3600 J)
1 KWh (kilowattora) = 10³ Wh = 3,6×10⁶ J1 MWh (megawattora) = 10⁶ Wh = 3,6×10⁹ J1 GWh (gigawattora) = 10⁹ Wh = 3,6×10¹² J1 toe (tonnellata equivalente di petrolio) = 4,187×10¹⁰ J1 Mtoe = 10⁶ toe = 4,187×10¹⁶ J1 Mt (megaton di TNT) = 4,184×10¹⁵ J1 eV (elettronvolt) = 1,602×10⁻¹⁹ J1 keV (kiloelettronvolt) = 10³ eV = 1,602×10⁻¹⁶ J1 MeV (megaelettronvolt) = 10⁶ eV = 1,602×10⁻¹³ J1 bar = la pressione atmosferica al livello del mare = 100 kPa1 fm (femtometro) = 10⁻¹⁵ metri1 t (tonnellata) = 10³ kg (1000 kg)

Cominciamo finalmente il nostro lungo viaggio partendo dalle condizioni fisiche presenti attualmente nel nucleo solare.

L’immensa massa di cui è composto il Sole, pari a 1,988×10³⁰ kg (quasi due quadriliardi di tonnellate), genera una potente spinta gravitazionale che preme sul nucleo, portando la materia ivi contenuta a condizioni di temperatura e pressione elevatissime.

Secondo i più recenti aggiornamenti del cosiddetto modello solare standard, la temperatura al centro del Sole è pari a circa 15.600.000 K (gradi Kelvin), mentre la densità è intorno ai 150 g/cm³, circa 150 volte la densità dell’acqua. La pressione supera i 235 miliardi di bar (2,357×10¹¹ bar per la precisione).

Con una densità sette volte maggiore di quella del platino (= 21,37 g/cm³), si potrebbe pensare che la materia nel nucleo solare si trovi in uno stato ultrasolido. Ma non è così. A causa delle condizioni di temperatura e pressione i nuclei atomici sono ionizzati, cioè separati dagli elettroni. La materia forma, pertanto, un densissimo gas di particelle elettricamente cariche, con le cariche negative che bilanciano, nel complesso, quelle positive: un plasma. È in questo plasma che si generano le reazioni nucleari che alimentano il Sole.

Sbattere contro la barriera di Coulomb

Grazie al lavoro teorico compiuto da Hans Bethe tra il 1938 e il 1939, sappiamo che la grande maggioranza delle reazioni nucleari che avvengono all’interno del Sole fa parte della cosiddetta catena protone-protone (più brevemente catena p-p). La catena comincia con la collisione di due protoni, cioè i nuclei dell’atomo più semplice, quello dell’idrogeno. Per via di successive fusioni, secondo lo schema illustrato nell’immagine seguente, sei protoni in tutto concorrono a formare una particella alfa, cioè un nucleo di elio. Nel corso del processo sono emessi due neutrini e viene liberata energia sotto forma di radiazione gamma. Sono emessi, infine, due protoni, liberi di partecipare a successive reazioni.

Le tre fasi della catena protone-protone. Credit: E. Chaisson, S. McMillan, “Astronomy today”, Pearson 2014 (modificato)

Le cose tuttavia non sono così semplici come lo schema sembrerebbe suggerire. Perché due protoni possano arrivare a fondersi, così da dare inizio alla serie di reazioni della catena, è necessaria molta energia: bisogna vincere la cosiddetta barriera di Coulomb, cioè la forza repulsiva che esiste tra particelle dotate di carica elettrica uguale (tutti i protoni hanno carica positiva).

C’è, in effetti, una forza che vince quella elettromagnetica, grazie a un’intensità circa 100 volte superiore: è l’interazione forte, la forza più potente che si conosca. È l’interazione forte che mantiene uniti i nuclei atomici contenenti più protoni, a dispetto della spinta disgregante esercitata su di essi dalla forza elettromagnetica. Il problema è che l’interazione forte ha un raggio d’azione a dir poco minuscolo. Il raggio di un protone è uguale approssimativamente a 0,8 femtometri, cioè otto decimi di un milionesimo di miliardesimo di metro. L’interazione forte ha un raggio d’azione appena maggiore, intorno a 1,4 fm.

La distanza tra due protoni non deve superare 1 fm affinché l’interazione forte possa avere la meglio sulla repulsione elettromagnetica. Credit: E. Chaisson, S. McMillan, “Astronomy today”, Pearson 2014 (modificato)

Due protoni, dunque, possono finire nell’“abbraccio” dell’interazione forte, che può vincere la reciproca repulsione elettromagnetica (che decresce con il quadrato della distanza), solo se riescono a ridurre la loro separazione a non più di un femtometro. Altrimenti schizzeranno via, ognuno per la propria strada. La forza della barriera di Coulomb tra due protoni separati da una distanza di 1 fm è di 2×10⁻¹³ J, cioè circa 1,25 MeV. Tale è dunque l’energia cinetica che un protone libero deve possedere per vincere la repulsione elettromagnetica verso un altro protone.

Per quanto possa sembrare strano vista l’altissima temperatura che esiste al centro della nostra stella, l’energia cinetica media dei protoni liberi nel plasma del nucleo solare è ben al di sotto di questa soglia. È infatti di circa 1 keV, cioè intorno a un millesimo dell’energia necessaria a superare la barriera di Coulomb.

Eppure sappiamo che la fusione nucleare è l’unico meccanismo possibile per la generazione del flusso di energia che il Sole emette costantemente da miliardi di anni. Se il motore dell’energia solare fosse la sola forza di gravità, come pure in passato si è creduto, il Sole non avrebbe potuto sostenere per più di 20–30 milioni di anni la potenza radiante che registriamo, la cui intensità si è mantenuta invece costante — come i rilievi geologici testimoniano — per un tempo enormemente più lungo. Inoltre, numerosi esperimenti di captazione dei neutrini solari, prodotti nel corso delle reazioni di fusione nucleare, hanno dimostrato, sia pure al termine di un percorso di ricerca non facile, che gli attuali modelli teorici che descrivono la generazione dell’energia solare sono tutto sommato corretti.

Come fanno, dunque, i protoni nel nucleo del Sole a superare la barriera di Coulomb, nonostante l’insufficiente energia di cui dispongono? La risposta fu trovata nel 1928 da George Gamow, un geniale fisico e cosmologo di origine ucraina, trasferitosi in seguito negli Stati Uniti.

L’effetto tunnel e il picco di Gamow

Per comprendere la soluzione proposta da Gamow, bisogna prima chiarire la differenza tra eventi che obbediscono alle leggi della fisica classica ed eventi che seguono le regole, apparentemente paradossali e controintuitive, dalla meccanica quantistica.

Credit: University of Tennessee, Knoxville (modificato)

Possiamo paragonare la barriera di Coulomb a un dislivello da superare. Nella fisica classica, un corpo possiede oppure no l’energia per superare un dislivello. Se facciamo rotolare una palla in salita lungo un pendio, ma imprimiamo una spinta insufficiente a superare la vetta, la palla tornerà indietro, immancabilmente, il 100% delle volte.

Nel caso di protoni e altre particelle subatomiche, però, le cose non stanno così: sono oggetti dotati di una duplice natura, ondulatoria e corpuscolare. Per dirla semplicemente, non è possibile sapere allo stesso tempo, con certezza assoluta, dove si trovano, in quale direzione stanno andando e con quale velocità. Sono descritti matematicamente dalla cosiddetta funzione d’onda, che è una distribuzione probabilistica delle loro coordinate spaziali e temporali. Il principio di indeterminazione di Heisenberg ci dice, inoltre, che, quanto meglio conosciamo uno dei due valori, per esempio la quantità di moto, tanto più indeterminato sarà l’altro (la posizione), e viceversa.

Tutto ciò significa che, al contrario di quanto accade nella fisica classica, non esiste una probabilità del 100%, cioè la certezza assoluta, che un protone abbia (o non abbia) l’energia sufficiente a superare la barriera di Coulomb. Anche se appartiene a un insieme di ioni la cui energia media è ben al di sotto di quella necessaria, può succedere, sia pure molto raramente, che un protone si trovi “magicamente” dall’altro lato della barriera, avendo per così dire preso a prestito temporaneamente l’energia mancante: è il cosiddetto effetto tunnel.

Interessato a spiegare il decadimento alfa, Gamow riuscì nel 1928 a trovare una descrizione matematica che, in buon accordo con le osservazioni empiriche, rendeva conto del tempo di dimezzamento dei nuclei atomici, dipendente dall’emissione di particelle alfa attraverso l’effetto tunnel. Il modello teorico proposto da Gamow si adatta perfettamente anche alla situazione che si verifica nel nucleo del Sole.

Credit: C. E. Rolfs, W. S. Rodney, “Cauldrons in the Cosmos”, University of Chicago Press, 1988 (modificato)

Per capire il grafico che illustra l’effetto descritto da Gamow, bisogna considerare in primo luogo il fatto che i miliardi e miliardi di particelle cariche che sfrecciano nel plasma del nucleo solare hanno ciascuna una propria velocità. La velocità di ogni particella concorre a formare la velocità media dell’insieme. Ma questo significa anche che, in certi casi, la velocità di un singolo protone, e dunque la sua forza di penetrazione della barriera di Coulomb, può essere molto maggiore dell’energia cinetica media dell’insieme di cui fa parte. La distribuzione di Maxwell-Boltzmann, una delle curve mostrate nel grafico, descrive in termini di probabilità la distribuzione delle particelle in base alla loro energia cinetica: c’è una probabilità molto maggiore, ovviamente, che una particella abbia un’energia prossima alla media generale, ma esiste una coda di particelle dotate di energie più alte della media, associate a probabilità tanto minori quanto più elevata è la loro energia.

Il grafico contiene poi un’altra curva, che descrive la probabilità di una particella di superare la barriera di Coulomb in base all’energia di cui dispone: quanto più elevata è la sua energia, tanto maggiore è la probabilità di penetrare la barriera grazie all’effetto tunnel.

La terza e ultima curva, che rappresenta il contributo di Gamow alla soluzione del problema, è il prodotto delle altre due. Descrive l’effetto combinato della probabilità che vi sia un dato numero di particelle più energetiche della media con la probabilità che esse hanno di penetrare la barriera repulsiva. Come si nota dall’andamento della curva, l’effetto massimo (il picco di Gamow) si ottiene per un valore intermedio dell’energia cinetica, posseduto da un numero non troppo piccolo di particelle, associate a una probabilità sufficientemente alta di penetrare la barriera. Nel caso che ci interessa, cioè la probabilità di un protone nel nucleo del Sole di riuscire a vincere la barriera di Coulomb per fondersi con un altro protone, questa distribuzione ideale dell’energia è situata tra 3 e 10 keV.

Ma, rispetto al numero totale di protoni liberi presenti nel nucleo solare, quelli dotati della giusta energia sono una piccola percentuale. Per di più, la reazione che dà inizio alla catena p-p prevede un evento estremamente raro. Infatti, anche quando riescono a superare la barriera di Coulomb, due protoni non possono rimanere “incollati” a lungo neppure sotto l’azione dell’interazione forte. O si separano immediatamente, il che accade il più delle volte, oppure uno dei due protoni deve trasformarsi, con il concorso dell’interazione debole, in un neutrone, emettendo un positrone ed un neutrino elettronico e formando così un deutone (un nucleo di deuterio). È questa rarissima trasformazione, nota come decadimento beta più, la causa principale dell’alto grado di improbabilità associato al primo stadio della catena p-p.

Non deve stupire, a questo punto, che il tempo medio occorrente prima che un protone nel nucleo solare sia coinvolto con successo in un ciclo di fusione nucleare sia stimato nell’ordine dei dieci miliardi di anni.

Eventi rarissimi hanno bisogno di numeri grandissimi

Dopo aver elencato tutte queste difficoltà, si potrebbe pensare che l’innesco e il mantenimento della fusione nucleare all’interno del Sole siano eventi pressoché impossibili. Ma è qui che entrano in gioco i grandi numeri con la loro forza inesorabile.

Il Sole contiene in totale qualcosa come 1,04 noviliardi di protoni (1,04×10⁵⁷), distribuiti in modo molto diseguale. Il 50% della massa solare è concentrata nel nucleo, dove avvengono le reazioni di fusione. Questa regione interna molto densa, che produce il 99% della luminosità solare, si estende dal centro del Sole per circa 175.000 km, ovvero per un quarto del raggio solare. La metà dei protoni — cioè 520 novilioni (5,2×10⁵⁶) — è stipata, pertanto, in un volume che è, all’incirca, solo 1/64 del volume complessivo del Sole.

Si tratta, però, pur sempre di un volume immenso, corrispondente a poco meno di 22,5 quadrilioni di metri cubi (2,245×10²⁵ m³): circa 20.730 volte il volume della Terra. Poiché conosciamo approssimativamente il numero totale di protoni racchiuso in questo volume, ci basta un rapido calcolo per ricavare il numero medio di protoni presenti in un solo centimetro cubico di materia del nucleo solare. Il numero che otteniamo è 23,1 quadrilioni (2,31×10²⁵).

Vale la pena di riflettere su questi numeri medi: ci sono nel nucleo solare oltre 23 quadrilioni di protoni per ogni singolo centimetro cubico di plasma, in un volume complessivo di circa 22,5 quintilioni di centimetri cubici (2,25×10³¹ cm³). Questa sterminata quantità di protoni è in grado di produrre, cifra più cifra meno, qualcosa come dieci deciliardi di interazioni, cioè rimbalzi o collisioni, al secondo (10⁶⁴).

Il nucleo solare in pillole. Credit: Michele Diodati e NASA Goddard (per l’illustrazione di sfondo)

Ecco che, di colpo, le collisioni fortunate tra protoni — quelle in cui viene superata la barriera di Coulomb e avviene la successiva trasformazione di un protone in un neutrone — cominciano a sembrarci molto meno improbabili di prima. O meglio: rimangono altamente improbabili, ma il numero di “candidati” che affrontano la selezione è di gran lunga maggiore del grado di improbabilità della serie di eventi richiesta per avviare la fusione nucleare, sicché anche questi eventi, pur se rarissimi, finiranno per verificarsi molte volte.

A conti fatti, delle 10⁶⁴ interazioni tra protoni che avvengono ogni secondo nel nucleo solare, è sufficiente che una sola volta ogni 10²⁶ si abbia una reazione di fusione, per garantire la produzione corrente di energia da parte del Sole. Ciò perché, come vedremo successivamente, il numero di nuclei di idrogeno coinvolti ogni secondo in reazioni di fusione è dell’ordine di 10³⁸ (quindi 10⁶⁴/10³⁸=10²⁶).

È un po’ come giocare miliardi di lotterie, tutte insieme, a ciclo continuo, ciascuna con molti miliardi di giocatori. La combinazione da indovinare è difficilissima e perciò la gran parte delle lotterie rimane senza un vincitore finale. Ma le lotterie che si giocano nel nucleo solare sono talmente tante e si ripetono talmente spesso che, alla fine, ci sono comunque moltissimi vincitori.

La costante che costante non è

Per trovare il numero dei ‘vincitori’ in questa festa delle lotterie, per sapere cioè quanto idrogeno ogni secondo, nel nucleo del Sole, entra in reazioni di fusione nucleare producendo elio ed energia, dobbiamo prenderla un po’ alla lontana, partendo dalla cosiddetta costante solare. Si definisce così l’intensità totale della radiazione solare che colpisce perpendicolarmente la sommità dell’atmosfera terrestre. Si misura in watt per metro quadro e la rilevazione viene fatta, dal 1978, per mezzo di satelliti dotati di appositi radiometri.

Secondo le più recenti misurazioni, che hanno corretto un difetto per eccesso dovuto a problemi di dispersione della luce nei rilevatori usati da alcuni satelliti, la costante solare equivale a 1361 W/m². Ogni secondo, cioè, un metro quadro alla sommità dell’atmosfera terrestre riceve dal Sole 1361 J di energia radiante. Circa il 7% di questa energia è luce ultravioletta, il 41% luce visibile, il 51% radiazione nel vicino infrarosso, quel poco che resta radiazione emessa in altre frequenze dello spettro.

Va detto, per amor di precisione, che la costante solare non è affatto una costante. Il nome è rimasto come retaggio di un tempo precedente l’uso dei satelliti, nel quale la misurazione era fatta da terra e le variazioni rispetto alla media, calcolata all’epoca in circa 1366 W/m², era attribuita all’imprecisione delle rilevazioni piuttosto che a variazioni nell’intensità della radiazione solare.

Dall’uso dei satelliti in poi, è stato invece accertato che l’irradiazione solare misurata alla sommità dell’atmosfera terrestre varia da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, persino da un minuto all’altro. Per questo negli studi astronomici si parla oggi di total solar irradiance (TSI), cioè irradiazione solare totale, piuttosto che di costante solare.

Le variazioni di breve termine, quelle su scale temporali minori di un giorno, sono dovute per lo più allo spostamento di celle di convezione sulla fotosfera del Sole, che interessano strutture chiamate, a seconda della grandezza, granuli, mesogranuli e supergranuli. Uno studio del 2012 ha poi identificato tre componenti cicliche di medio e lungo termine, che concorrono a determinare la variazione della TSI, misurata comparando le rilevazioni satellitari sull’arco di tre decenni:

  • la prima componente è la rotazione delle strutture magnetiche sulla superficie solare, legata spesso a macchie solari e gruppi di macchie solari.
  • La seconda componente, di durata annuale, è probabilmente un effetto dell’inclinazione dell’orbita terrestre rispetto al Sole. La congettura indicherebbe, se confermata, che l’irradiazione solare non è uniforme, ma varia con la latitudine (solare, non terrestre).
  • La terza e ultima componente è invece il noto ciclo di undici anni che influenza l’attività solare e le cui manifestazioni vengono monitorate da ormai 400 anni.
Le variazioni dell’irradiazione solare totale dal 1978 a oggi. La scala sulla destra del grafico tiene conto della correzione al ribasso dei valori della TSI, conseguente alla scoperta di un errore per eccesso di circa 4 W/m², dovuto a problemi negli strumenti di rilevazione. Osservando l’andamento della curva, si nota che i valori minimi della TSI corrispondono ai minimi del ciclo solare di undici anni, con l’ultimo minimo, quello del 2008, particolarmente sotto la media. Credit: Claus Fröhlich

Quel che è importante notare, ai fini della nostra ricerca sull’energia emessa dal Sole, è che la costante solare, pur non essendo una vera costante, ha comunque margini di variazione davvero piccoli, mai superiori allo 0,5%. Se si scorrono i dati dell’irradiazione solare totale, misurati dal 1976 al 2015 (opportunamente corretti al ribasso), su circa 14.500 giorni monitorati la stragrande maggioranza dei valori cade tra 1360 e 1361 W/m².

L’energia totale emessa dal Sole

Insomma, il Sole è una “macchina” che funziona in modo regolare e affidabile, almeno sulla scala trentennale per la quale abbiamo misurazioni precise e continue. Assumendo che emani energia in tutte le direzioni con la stessa intensità che riversa su un metro quadro di cielo alla sommità dell’atmosfera terrestre, possiamo ricavare la quantità totale di radiazione emessa trovando l’area della superficie della sfera ideale centrata sul Sole di cui quel metro quadro fa parte.

Credit: E. Chaisson, S. McMillan, “Astronomy today”, Pearson 2014 (modificato)

Conosciamo già il raggio della sfera, che non è altro che la distanza media della Terra dal Sole, cioè 1 unità astronomica (UA), pari esattamente a 149.597.870.700 m: poco meno di 150 milioni di km. Applichiamo dunque al nostro caso la formula per calcolare la superficie di una sfera, 4π(r = 1 UA)², e otteniamo l’area cercata: 2,812×10²³ m². Ci basta ora moltiplicare quest’area per i 1361 W/m² della costante solare (ecco finalmente il motivo per cui l’abbiamo tirata in ballo!) per ottenere l’energia totale emessa dal Sole ogni secondo. Il risultato è un numero che fa impallidire qualsiasi fenomeno energetico con cui abbiamo a che fare sulla Terra: 3,827×10²⁶ W, oltre 382 quadrilioni di joule al secondo! Si tratta, in realtà, di un valore leggermente inferiore al dato canonico riportato dalla maggior parte delle fonti, cioè 3,846×10²⁶ W, perché abbiamo applicato la correzione al ribasso della costante solare, che, come abbiamo visto, è stata definita solo di recente.

L’energia emessa dal Sole in un solo secondo equivale approssimativamente a quella liberata da un’esplosione della potenza di 91 miliardi e mezzo di megaton (9,15×10¹⁰ mt). Se si convogliasse tutta la radiazione solare sulla Terra, basterebbero solo sei secondi per far evaporare completamente gli oceani e tre minuti per sciogliere la crosta terrestre.

Assumendo un’irradiazione stabile regolata sul valore attuale della costante solare, in un solo anno il Sole emette qualcosa come 12 quintiliardi di joule (1,207×10³⁴ J), mentre in un miliardo di anni l’energia totale emessa supera i 12 settilioni di joule (1,207×10⁴³ J).

Sono numeri quasi privi di significato per chi ha come solo riferimento le energie di cui possiamo disporre qui sulla Terra. Secondo l’International Energy Agency (IEA), il bilancio energetico globale dell’intera umanità nel 2012 è stato di 18.609 Mtoe, che equivalgono a 7,791×10²⁰ J. Ciò vuol dire che l’energia emessa dal Sole in un solo secondo è quasi mezzo milione di volte (491.208 volte per l’esattezza) maggiore dell’energia globale prodotta sulla Terra nell’intero 2012 sommando petrolio, gas naturale, fonti rinnovabili ecc.

La potenza dell’equazione di Einstein

A quale prezzo il Sole può sostenere un simile ritmo di produzione dell’energia? La risposta va cercata nell’equivalenza tra massa ed energia, che Einstein racchiuse nell’equazione più citata della storia della fisica, enunciata nel 1905: E = mc².

L’energia — dice l’equazione — è uguale (almeno nei corpi in stato di quiete) alla massa per il quadrato della velocità della luce. Ma noi conosciamo, ormai, grazie alla costante solare moltiplicata per la superficie della sfera con raggio uguale a 1 unità astronomica, qual è l’energia totale emessa dal Sole in un secondo: 3,827×10²⁶ J. Possiamo ricavare, dunque, dall’equazione di Einstein il termine che non conosciamo, cioè la quantità di massa solare che deve essere trasformata ogni secondo in energia. Ci basta a tal fine modificare i membri dell’equazione, in modo che l’incognita sia la massa invece che l’energia. Avremo così: m = E/c², e cioè:

Massa (kg) = 3,827×10²⁶ J / (2,997×10⁸ m)²

Eseguendo il calcolo, otteniamo che la massa che il Sole “perde” di secondo in secondo trasformandola in energia è pari a 4,26×10⁹ kg: come dire che 4.260.000 tonnellate di massa solare scompaiono nel tempo di dire “Ciao”, trasformate in luce e calore (e neutrini). Ad un simile ritmo, il Sole “dimagrisce” nell’arco di un solo giorno di 368 miliardi di tonnellate (3,68×10¹¹ t). In un anno la perdita di massa arriva ad oltre 134 bilioni di tonnellate (1,343×10¹⁴ t).

Sembra tanto, ma rispetto alla massa gigantesca del Sole si tratta di bruscolini. Il rapporto tra la quantità di massa trasformata in energia in un anno e la massa totale del Sole è 6,754×10⁻¹⁴. Grazie al vantaggioso fattore di conversione della massa in energia, il Sole, per produrre i 12 quintiliardi di joule che irradia nello spazio in un anno, deve consumare appena 6,754 centomillesimi di miliardesimo della sua massa. Dividete la massa del Sole in un miliardo di parti uguali per densità e volume. Prendete una sola di quelle parti e dividetela, a sua volta, in centomila porzioni uguali. Di quelle centomila, prendetene poco meno di sette ed avrete la quantità di massa che deve scomparire perché possa essere prodotta la radiazione emessa dal Sole in un anno intero.

A questo ritmo ci vogliono quasi 44 milioni e mezzo di anni prima che il Sole abbia convertito in energia una quantità di massa equivalente a quella della Terra. E questo senza aver scalfito significativamente le proprie riserve (occorrono 332.946 Terre per fare la massa del Sole). Assumendo che la luminosità sia rimasta sempre costante, nei 4,57 miliardi di anni passati dal suo approdo sulla sequenza principale, il Sole ha “bruciato” in totale nel corso di reazioni di fusione nucleare 6,14×10²³ t di materia, pari ad “appena” 102,8 masse terrestri (o 0,32 masse gioviane): 3 decimillesimi in tutto della massa solare attuale.

Credit: Michele Diodati e NASA (per le immagini del Sole e della Terra)

Ecco la potenza dell’equazione di Einstein o, per meglio dire, della legge fisica che essa cattura: è sufficiente una piccola massa per ottenere una quantità enorme di energia (nel rispetto del principio di equivalenza di massa ed energia, secondo il quale l’una e l’altra sono solo due manifestazioni diverse di una stessa sottostante realtà fisica).

La trasmutazione della materia

Conoscere l’energia totale irradiata dal Sole in un secondo ci permette di ricavare un’altra informazione interessante: la quantità di reazioni nucleari che devono avvenire al suo interno per garantire tale erogazione.

Per arrivarci, dobbiamo partire dalla massa che scompare nel corso della trasmutazione dell’idrogeno in elio. Il risultato finale delle tre fasi della catena p-p è la trasformazione di quattro nuclei di idrogeno, cioè quattro protoni, in un nucleo di elio, costituito da due protoni e due neutroni. La massa complessiva dei quattro protoni è 6,6943×10⁻²⁷ kg, mentre la massa del nucleo di elio è leggermente inferiore: 6,6466×10⁻²⁷ kg. C’è, dunque, al termine delle reazioni della catena, una massa mancante di 0,0477×10⁻²⁷ kg che è stata convertita in energia: si tratta dello 0,71% della massa di partenza (i quattro protoni).

Per sapere qual è la produzione netta di energia al termine di un’esecuzione completa della catena p-p ci basta moltiplicare la massa mancante per il quadrato della velocità della luce: è la “solita” equazione di Einstein (E = mc²). Il risultato è 4,287×10⁻¹² J: 4,2 millesimi di un miliardesimo di joule. È una quantità minuscola di energia, ma solo perché è il risultato di eventi che si verificano alla scala dei femtometri e che provocano la conversione in energia di una massa inconcepibilmente piccola: occorrono oltre 10 quadrilioni di cicli completi (1,027×10²⁵) della catena p-p per convertire in energia una massa corrispondente al peso di una mentina di Tic-tac da 0,49 g!

Ma l’efficienza senza pari della fusione nucleare diventa più che evidente, se ci allontaniamo dalla scala subatomica e calcoliamo, invece, l’energia prodotta dalla catena p-p utilizzando quantità di idrogeno più vicine alla scala delle cose umane, per esempio 1 kg. Il prodotto energetico netto è in questo caso di ben 638 bilioni di joule (6,381×10¹⁴ J), cioè l’equivalente di 177,3 GWh: quanto basta per sostenere per un’ora il consumo elettrico a piena potenza di 59,1 milioni di impianti domestici da 3 kWh. Si tratta di una notevole quantità di energia, ottenuta con la conversione di soli 7,1 g di idrogeno, mentre il resto — 992,9 g per l’esattezza — si è trasformato in elio.

Ora che sappiamo quanta energia è in grado di generare 1 kg di idrogeno, e visto che sappiamo anche qual è l’energia totale prodotta dal Sole in un secondo, possiamo calcolare quanto idrogeno viene trasformato complessivamente in elio in un secondo nel nucleo della nostra stella. Il calcolo è semplice. Ci basta dividere l’energia totale emessa in un secondo per l’energia prodotta “bruciando” 1 kg di idrogeno:

3,827×10²⁶ J / 6,4×10¹⁴ J

Otteniamo una quantità piuttosto elevata in rapporto alla scala delle grandezze umane, ma quasi insignificante se confrontata con la massa solare: 598.000.000.000 kg, poco meno di 600 milioni di tonnellate.

Poiché già sappiamo dai calcoli precedenti che il Sole converte in energia 4.260.000.000 kg al secondo, ricaviamo facilmente la quantità di elio che rimane al netto della massa convertita in energia: 593.740.000.000 kg.

Credit: Michele Diodati e NSO/AURA/NSF (per l’immagine di sfondo del Sole)

Per amor di precisione, vale la pena di ricordare che le quantità di idrogeno e di elio che abbiamo ricavato sono un po’ approssimate: nel calcolare la potenza erogata dal Sole in un secondo abbiamo trascurato, infatti, che circa il 2% dell’energia prodotta dai vari rami della catena p-p non sfugge nello spazio esterno come radiazione elettromagnetica ma sotto forma di neutrini. Inoltre non abbiamo considerato che circa l’1% dell’energia solare deriva da un’altra catena di reazioni nucleari, il cosiddetto ciclo CNO, il cui bilancio energetico è leggermente diverso da quello della catena p-p.

Comunque sia, ora che abbiamo queste cifre, possiamo ricavare — consapevoli che si tratta di lievi approssimazioni — anche il numero di protoni e di nuclei di elio coinvolti ogni secondo in eventi di fusione nucleare all’interno del Sole. Se dividiamo per la massa di un protone (1,673×10⁻²⁷ kg) i circa 600 milioni di tonnellate di idrogeno che, ogni secondo, vengono trasformate in elio, otteniamo 3,574×10³⁸. Se, poi, dividiamo per la massa di un nucleo di elio (6,6466×10⁻²⁷ kg) i quasi 594 milioni di tonnellate di elio ottenuti ogni secondo dalla fusione dei nuclei di idrogeno, otteniamo 8,932×10³⁷. Traducendo la notazione scientifica in forma discorsiva, abbiamo che, ogni secondo, all’interno del Sole 357 sestilioni di nuclei di idrogeno sono trasformati in 89 sestilioni di nuclei di elio.

Ma, come abbiamo visto in precedenza, l’ordine di grandezza delle interazioni che avvengono ogni secondo all’interno del nucleo (10⁶⁴) resta di gran lunga maggiore dell’ordine di grandezza dei protoni che, in quello stesso secondo, partecipano a una reazione di fusione nucleare (10³⁸). Ciò salvaguarda il principio che i vincitori delle “lotterie”, per tornare alla metafora già usata, sono, e saranno, estremamente rari.

Una gigantesca “stufa” atomica

Una conferma di quanto appena detto è che — per nostra fortuna! — il Sole si comporta più come una stufa che come una bomba termonucleare. L’energia prodotta si accumula cioè molto lentamente e ancora più lentamente viene trasportata verso gli strati esterni della stella fino alla fotosfera, da dove poi sfugge nello spazio esterno come radiazione elettromagnetica.

Tutto ciò è possibile perché la densità e la frequenza degli eventi di fusione nel nucleo solare sono sufficientemente basse da permettere il mantenimento costante di un equilibrio dinamico tra la pressione termica verso l’esterno e la spinta centripeta esercitata ininterrottamente dalla gravità. Quando quest’equilibrio si rompe e una stella si comporta realmente come una bomba a fusione, le conseguenze sono a dir poco devastanti: è il caso delle esplosioni di supernova. Ma da questo punto di vista noi terrestri possiamo stare tranquilli: la massa del Sole è assolutamente insufficiente a provocare un esito così catastrofico.

Per avere un’idea più precisa di come il Sole si comporti da stufa più che da bomba, il modo più semplice è calcolare quanta energia viene prodotta mediamente nel nucleo solare per unità di volume. Come ormai sappiamo, il 99% della luminosità della nostra stella è prodotto nel nucleo, che contiene il 50% della massa totale e si estende per il 25% del raggio. Abbiamo già calcolato il volume del nucleo, che è pari — lo ricordiamo — a 22,5 quadrilioni di metri cubi (2,25×10²⁵ m³). Se dividiamo il 99% dell’energia che il Sole irradia in un secondo per questo volume, otteniamo la miseria di 16,84 W: in altre parole, un metro cubo di materia nel nucleo solare produce in media energia appena sufficiente ad alimentare una fioca lampadina.

La quantità di energia prodotta per unità di volume aumenta se consideriamo la regione più interna del nucleo. In base al modello solare standard che stiamo usando come riferimento per questo articolo, il 50% della luminosità emessa dal Sole è prodotta in una zona che si estende dal centro fino a un raggio pari a solo il 10,6% del raggio solare. il volume di questo “nucleo del nucleo” è di 1,68 quadrilioni di metri cubi (1,682×10²⁴ m³). Se dividiamo il 50% della luminosità solare per tale volume, otteniamo un valore di 113,76 W: un metro cubo di materia in questa regione più densa, più calda e più attiva del nucleo produce poca più energia di quella che serve ad alimentare una lampadina da 100 W. Siamo ben lontani dalla potenza deflagrante di una bomba.

La produzione di energia per metro cubo e per chilogrammo nel nucleo solare. Credit: Michele Diodati

Se invece di fare riferimento al volume consideriamo la produzione di energia in rapporto alla massa, diventa ancora più evidente la piccolezza delle quantità in gioco. Un chilogrammo di materia nel nucleo solare produce mediamente appena 0,00038 W. Con una tonnellata, non arriviamo neppure a 0,4 W. Incredibilmente, occorrono 262,4 tonnellate di materia solare per produrre tramite fusione nucleare l’energia sufficiente ad alimentare una lampadina da 100 W!

Se ci limitiamo a considerare solo la parte più interna, quella che abbiamo chiamato “nucleo del nucleo”, la densità energetica aumenta sicuramente, ma non poi di tanto. Poco meno del 9% della massa solare, precisamente 1,774×10²⁹ kg, è stipata in questa regione, che produce ben il 50% della luminosità totale. Qui 1 kg di materia genera in media una potenza di 0,001 W. Occorre perciò esattamente 1 tonnellata di idrogeno per produrre 1 W e dunque 100 tonnellate per alimentare la solita lampadina da 100 W.

Un grande volume sotto una piccola superficie

L’intuito ci dice che c’è qualcosa che non quadra. Le reazioni di fusione nel nucleo solare producono quantità di energia minuscole per unità di volume e di massa tutto sommato non trascurabili, dal punto di vista umano, quali sono il metro cubo e la tonnellata. Da dove arriva allora quell’enorme quantità di energia che il Sole irradia in tutte le direzioni e che, se concentrata sulla Terra, potrebbe far evaporare gli oceani in pochi secondi?

La risposta sintetica è che un metro cubo e una tonnellata sono unità assolutamente trascurabili rispetto alla grandezza del Sole, che ne contiene talmente tanti — di metri cubi e di tonnellate — da poter creare un totale enorme semplicemente sommando un numero sterminato di piccoli addendi.

Ma questa risposta soddisfa poco l’intuito. È troppo astratta. Le cose ci sembreranno più chiare, invece, se riusciremo a mettere in relazione la superficie con le profondità del Sole. Dobbiamo analizzare, in altre parole, il rapporto tra superficie e volume di una sfera o, meglio ancora, tra porzioni della sua superficie e volumi sottostanti. Il ragionamento ci richiederà qualche altro calcolo, ma ormai siamo abituati.

Abbiamo ricavato l’energia totale emessa dal Sole moltiplicando la costante solare per la superficie di una sfera ideale con raggio di 1 unità astronomica. Se restringiamo la sfera alle dimensioni del Sole, possiamo calcolare l’energia emessa da ogni singolo metro quadro di superficie solare. L’operazione è geometricamente sensata, perché il Sole è una sfera quasi perfetta: presenta uno schiacciamento ai poli pari ad appena (7,77±0,66)×10⁻⁶, il che vuol dire che si allontana dalla sfericità per meno di 8 parti su 1 milione.

Dividiamo quindi l’energia totale emessa in un secondo, cioè 3,827×10²⁶ J, per la superficie solare calcolata al livello della fotosfera, che è poco più di 6 trilioni di metri quadrati (6,093×10¹⁸ m²). Il risultato della divisione ci dice che ogni singolo metro quadro sprigiona 62,8 milioni di joule al secondo (6,281×10⁷ J).

Ovviamente è una media e come tale va presa: la superficie visibile del Sole è sede di fenomeni di vario tipo — granulazione, macchie solari, brillamenti, protuberanze, ricombinazioni del campo magnetico — che modificano in molti modi la quantità di radiazione elettromagnetica emessa a livello locale. Ma, a prescindere dalle variazioni locali, si tratta comunque di un’enorme quantità di energia: basta un’ora perché un solo metro quadro di superficie solare emetta in media l’equivalente di 62,81 MWh, una quantità corrispondente all’energia sufficiente a coprire il fabbisogno elettrico annuale, pari a circa 2700 kWh, di oltre 23 famiglie italiane. Bisogna dunque spiegare da dove esca tanta energia, sciogliendo l’apparente contraddizione con la scarsa densità degli eventi di fusione nel nucleo solare.

Proviamo a mettere le cose in prospettiva. Immaginiamo che quel metro quadro sia la base di una piramide retta affusolatissima, che affonda fino al centro del Sole e la cui altezza è dunque uguale al raggio solare di 696.000.000 m. Per ricavare il volume di questa piramide, moltiplichiamo l’area della base (1 m²) per l’altezza e dividiamo il risultato per 3. Otteniamo un volume di oltre 232 milioni di metri cubi (2,321×10⁸ m³).

La gran parte di questo volume è occupata da materia relativamente poco densa, il cui compito principale è partecipare al trasporto dell’energia dal nucleo verso la superficie. La parte che ci interessa, invece, è una piramide più piccola, che costituisce la sommità della prima e ha il vertice nel centro del Sole e la base più o meno a 175.000 km dal centro: è una porzione ritagliata nel nucleo solare, dove si produce tutta l’energia che sarà poi emessa all’esterno, passando infine anche attraverso quel metro quadro da cui siamo partiti e che si trova, lontanissimo, sulla superficie del Sole. Il volume di questa piramide interna, la cui base quadrata ha i lati di poco più di 25 cm, è di circa 3.683.000 metri cubi.

Credit: Michele Diodati

Tiriamo le somme del ragionamento: ogni singolo metro quadro di superficie solare è l’unica valvola di sfogo di una sottostante fornace nucleare di 3,68 milioni di metri cubi di volume. Sappiamo dai calcoli precedenti che, in media, un metro cubo di materia nel nucleo solare produce 16,84 W. Se moltiplichiamo questo valore per i 3,68 milioni di metri cubi della porzione di nucleo che giace sotto ciascun metro quadro di superficie solare, otteniamo un totale di 62.036.000 W, cioè 6,203×10⁷ J/s, che corrisponde, con le dovute approssimazioni, all’energia emessa da un metro quadro di superficie solare, calcolata a partire dal valore della costante solare.

Il frenetico ping-pong dei fotoni nelle regioni interne del Sole e i moti convettivi che dominano negli strati esterni rimescolano tutto (parleremo di questi argomenti più avanti): quindi — è bene chiarirlo — non c’è un rapporto diretto tra l’energia irradiata da un qualunque metro quadro di superficie solare e l’energia prodotta negli strati profondi del nucleo posti perpendicolarmente sotto di esso. Tuttavia il rapporto tra superficie e volume resta, nel complesso, quello che abbiamo indicato.

Il Sole, in sostanza, è come un gigantesco forno sferico che consuma lentissimamente la sua grande scorta di combustibile nucleare, avendo a disposizione solo una superficie limitata attraverso cui scaricare all’esterno l’energia prodotta e accumulata nelle sue viscere. Solo vedendo le cose in questo modo acquista un senso il fatto che un misero metro quadro di superficie solare possa erogare milioni di watt, mentre l’energia prodotta dalla fusione nucleare nelle profondità del Sole è nell’ordine dei pochi watt per metro cubo. Quel metro quadro sulla superficie agisce, insomma, come una specie di casello autostradale: canalizza tutto il traffico e crea una lunghissima coda, perché è l’unica via di fuga dell’energia verso l’esterno.

L’odissea dei fotoni nel “flipper” solare

Un altro fatto controintuitivo, determinato dalla struttura interna del Sole, è la lentezza del trasporto verso la superficie della radiazione elettromagnetica prodotta nel corso delle reazioni di fusione nucleare.

Come abbiamo visto, durante un’esecuzione della catena p-p vengono prodotti due positroni, che finiscono immediatamente annichiliti nella collisione con altrettanti elettroni. In ognuno di questi eventi si producono fotoni gamma, cioè il tipo di radiazione elettromagnetica dotato di maggiore energia e di minore lunghezza d’onda.

Ciascuno dei due fotoni prodotti in queste reazioni trasporta un’energia di 8,17×10⁻¹⁴ J, pari a 0,51 MeV. La luce visibile, per confronto, possiede un’energia di gran lunga inferiore: dai 2,8×10⁻¹⁹ J della luce rossa (pari a 1,748 eV) ai 4,2×10⁻¹⁹ J della luce blu (2,621 eV). Un fotone gamma prodotto nel nucleo solare trasporta in media, dunque, 200.000 volte più energia della luce visibile.

Se questi fotoni gamma viaggiassero senza incontrare ostacoli, raggiungerebbero la superficie solare e, di lì, lo spazio esterno in poco più di due secondi. Sulla Terra non riceveremmo la luce e il calore che consentono alla vita di esistere e prosperare, ma solo un profluvio di radiazioni ad altissima energia, in grado di sterilizzare ogni cosa.

Fortunatamente la composizione interna del Sole rende il viaggio dei fotoni gamma verso l’esterno estremamente difficile. E, soprattutto, li degrada fino a lunghezze d’onda non pericolose per la vita. A causa dell’altissima densità del plasma, l’interno del Sole, fino a un raggio di circa 500.000 km, costituisce per la radiazione elettromagnetica una sorta di immenso labirinto. Non appena creato, infatti, un fotone gamma, a seconda della densità e dell’opacità locali, percorre in media non più di 0,1–0,5 mm prima di terminare bruscamente la propria esistenza nella collisione con un elettrone o, molto più raramente, con un nucleo atomico (la sezione d’urto di un protone è 10⁸ volte minore di quella di un elettrone).

Tra le variabili che influenzano l’opacità alla radiazione vi è la densità. Altre variabili sono la temperatura, il grado di ionizzazione e la specie atomica. Credit: James Schombert, University of Oregon (modificato)

La collisione tra un fotone e un elettrone fu studiata e descritta dal fisico Arthur Compton nel 1923, che per questa scoperta ottenne il premio Nobel nel 1927. L’importanza dell’effetto Compton, così chiamato in suo onore, consiste nell’aver fornito una prova indiscutibile della natura non solo ondulatoria, ma corpuscolare della luce. Compton riuscì infatti a dimostrare che un fotone, quasi fosse un oggetto materiale, può impattare contro un singolo elettrone trasferendogli momento ed energia così da cambiarne la traiettoria e la velocità.

Lo schema dell’effetto Compton mostra come la traiettoria del fotone emesso dopo la collisione dipenda dall’angolo con cui l’elettrone è rimbalzato. Si tratta di uno scattering anelastico: l’energia cinetica iniziale, cioè, non si conserva, ma viene in parte trasferita all’elettrone. Ecco perché il fotone emesso dopo la collisione ha meno energia del primo (dunque maggiore lunghezza d’onda). Credit: Science Calculators

Nella collisione il fotone finisce assorbito dall’elettrone, che successivamente emette un altro fotone, dotato generalmente di lunghezza d’onda maggiore (e quindi di minore energia) nonché di una traiettoria differente. La traiettoria del nuovo fotone dipende dall’angolo con cui l’elettrone è rimbalzato dopo la collisione. Tutto ciò somiglia molto a quello che accade nel gioco del biliardo, quando il boccino colpisce la palla: l’angolo di rimbalzo del boccino dipende dall’angolo di rimbalzo della palla. La differenza principale col biliardo è che, nell’effetto Compton, non c’è un unico “boccino”, ma due: il primo fotone, che scompare al momento della collisione, e quello emesso successivamente, differente dal primo per lunghezza d’onda e momento.

A causa dell’enorme quantità di elettroni liberi presenti nel plasma solare, le collisioni tra fotoni ed elettroni, nonché tra elettrone ed elettrone, sono onnipresenti e continue. È stato calcolato che un fotone gamma emesso nel corso di una reazione della catena p-p dà origine a non meno di 10–12 quadrilioni di collisioni (1,0–1,2×10²⁵), prima che i fotoni prodotti in questa serie di eventi riescano ad uscire dalla regione attraverso cui l’energia si diffonde per radiazione.

Se si potessero visualizzare tutte le traiettorie di tutti i fotoni generati a partire da un singolo fotone gamma all’interno del Sole, otterremmo l’immagine di un cammino super-contorto, infinitamente lungo, simile al vagabondare erratico degli ubriachi. La differenza è che tutti i fotoni si muovono, inevitabilmente, alla velocità della luce. La lunga durata del loro viaggio all’interno della massa solare è dovuta solo all’immenso numero di assorbimenti e riemissioni e alla lunghezza complessiva di tutti i brevi tratti percorsi tra una collisione e l’altra.

Una simulazione eseguita con MATLAB del cammino casuale (random walk) dei fotoni all’interno del Sole, fatto da una serie interminabile di assorbimenti e riemissioni. La simulazione è stata creata impostando un limite di 2.000.000 di passi, che rappresenta una frazione minuscola del numero complessivo di interazioni generate da un fotone gamma all’interno del Sole (stimato in 10²⁵). Credit: Purpy Pupple/Wikimedia

Ma qual è poi questo tempo? Ci sono in proposito stime differenti: alcuni sostengono che siano sufficienti alcune migliaia di anni dalla creazione di un fotone gamma fino all’uscita dalla fotosfera della corrispondente radiazione, degradata a lunghezze d’onda maggiori. Altri studiosi propongono tempi molto più lunghi, da un milione fino a 20 milioni di anni.

In realtà nessuno sa esattamente quanto duri questo viaggio. L’unica cosa più o meno certa è che dura moltissimo tempo. Le stime si basano per lo più su modelli matematici che simulano l’“odissea” dei fotoni a partire da una serie di parametri che descrivono la struttura interna del Sole. L’attendibilità delle stime dipende, naturalmente, da quanto sono “azzeccati” i valori dei parametri utilizzati, come ad esempio il gradiente di densità e di opacità dal nucleo fino al confine esterno della regione in cui l’energia si diffonde per radiazione. Purtroppo non si può sezionare il Sole per verificarne l’esattezza: dobbiamo limitarci alle costruzione teoriche, parzialmente supportate da conferme ricavate per via indiretta (per esempio dall’eliosismologia).

Uno studio spesso citato, pubblicato su The Astrophysical Journal nel 1992, indicava in 170.000 anni il tempo medio di diffusione fino alla superficie solare della radiazione prodotta nel corso della reazioni di fusione nucleare. Se questa stima fosse corretta, avremmo la strana situazione per cui, mentre i neutrini che vengono registrati dagli appositi rilevatori sono quelli creati appena otto minuti prima nel nucleo solare (i neutrini attraversano la materia praticamente indisturbati), la luce che contemporaneamente ci arriva dal Sole è invece “figlia” di eventi di fusione avvenuti all’epoca in cui i primi homo sapiens si sudavano la vita nelle savane dell’Africa Orientale.

Come è fatto dentro?

Quali che siano i tempi effettivi di diffusione della radiazione all’interno del Sole, è importante comprendere il meccanismo con cui l’energia prodotta nel nucleo raggiunge infine lo spazio esterno. A tal fine, dobbiamo capire innanzitutto com’è fatto il Sole all’interno.

Abbiamo visto che c’è un nucleo, densissimo e massiccio, esteso per un raggio di circa 175.000 km a partire dal centro, all’interno del quale avviene la quasi totalità delle reazioni di fusione nucleare, grazie alle sue condizioni estreme di temperatura e pressione.

Il nucleo non ha un confine preciso, ma sfuma gradualmente in una regione più esterna, la zona radiativa, che ha densità e temperatura insufficienti a sostenere le reazioni di fusione nucleare, ma è abbastanza trasparente da rendere possibile la diffusione dell’energia per radiazione. La temperatura alla base della zona radiativa e di circa 7.000.000 K, ma scende fino a 2.000.000 K al suo confine esterno; la sua densità, invece, sfuma gradualmente da 20 g/cm³ fino a soli 0,2 g/cm³ (cinque volte meno di quella dell’acqua).

Quando la radiazione elettromagnetica che attraversa la zona radiativa raggiunge, infine, la superficie del Sole e poi la Terra, la sua distribuzione spettrale, centrata principalmente sulle frequenze del visibile e dell’infrarosso, mostra un’attenuazione tale dell’energia rispetto ai fotoni gamma prodotti nel nucleo, da indicare che, mediamente, ciascuno di essi ha dato origine alla produzione di alcune centinaia di migliaia di fotoni in uscita dalla fotosfera.

Credit: NASA (modificato)

Tutto questo trasporto di energia avviene senza spostare materia, almeno fino al confine esterno della zona radiativa. Le particelle che compongono il plasma del nucleo e della zona radiativa si spostano, infatti, solo localmente, in ragione dell’energia cinetica che ciascuna di esse possiede. Non sono loro, insomma, a viaggiare verso l’esterno, ma solo la radiazione elettromagnetica (una volta che sia riuscita a trovare la strada).

Il nucleo e la zona radiativa formano un insieme coerente, che ruota su se stesso in modo uniforme, come hanno dimostrato gli studi di eliosismologia, con un periodo di circa 26,7 giorni, corrispondente più o meno al periodo di rotazione della superficie solare intorno a 42° gradi di latitudine. Circa il 97,5% della massa solare è contenuto nella regione costituita da nucleo e zona radiativa.

A circa 500.000 km dal centro, cioè intorno al 71% del raggio solare, finisce la zona radiativa e comincia un sottile livello di transizione, chiamato tachoclìne. Il nome, di origine greca, vuol dire pressappoco “gradiente di velocità” e si deve a E. A. Spiegel e J.-P. Zahn, autori di uno studio pubblicato nel 1992 e primi teorizzatori di questo livello interno del Sole.

La tachocline è un luogo turbolento, che fa da confine tra la zona radiativa, verso l’interno del Sole, e la zona convettiva, che raggiunge la superficie. Mentre sotto la tachocline la rotazione è uniforme, al di sopra tutto si complica, con diverse velocità di rotazione a seconda della latitudine, determinate dai moti di rimescolamento delle celle di convezione. Nella tachocline avviene dunque una sorta di attrito tra due regioni del Sole caratterizzate da condizioni fisiche molto diverse. Questo livello di transizione ha acquisito maggiore importanza negli ultimi anni, perché si ipotizza che possa essere all’origine della dinamo che alimenta il campo magnetico solare, responsabile di importanti fenomeni che interessano la fotosfera e l’atmosfera del Sole.

L’immagine a sinistra evidenzia attraverso l’uso del colore la rotazione differenziale del Sole: le regioni interne ruotano a velocità uniforme, mentre le aree superficiali ruotano più velocemente all’equatore che ai poli. Il riquadro a destra mostra il Sole in sezione. La tachocline è colorata in verde e molto esagerata in spessore. Le frecce indicano la direzione dei moti di rimescolamento all’interno di questa zona di transizione. Le linee curve nella sottostante zona radiativa sono linee di campo magnetico. La regione più esterna, colorata in giallo-arancio, è la zona convettiva. Gli archi al suo interno simulano la distribuzione e la grandezza delle celle di convezione. Credit: D. O. Gough e M. E. McIntyre, Nature 394, 755–757 (1998)

A partire dalla base della zona convettiva il meccanismo di trasporto dell’energia cambia. La diminuzione della temperatura rispetto alle regioni più interne consente a diverse specie di atomi (carbonio, ossigeno, azoto, ferro, calcio) di trattenere almeno parzialmente i loro elettroni. Questa materia non più completamente ionizzata aumenta localmente l’opacità alla radiazione e si creano così delle sacche di squilibrio termico. In queste sacche il calore in eccesso non può essere più disperso uniformemente verso la superficie attraverso la radiazione, per cui il gas, ormai molto rarefatto, si espande e tende a salire. Si creano così degli “ascensori” che portano la materia più calda in superficie. Sono le celle di convezione, che funzionano con lo stesso meccanismo delle bolle di vapore che si formano nell’acqua in ebollizione. In questo modo il trasporto dell’energia avviene attraverso la materia, non più attraverso la radiazione. Ed è molto più rapido: si calcola che il trasferimento di gas dalla base della zona convettiva fino alla fotosfera duri non più di 30–40 giorni.

Acquisita nel 2010 dall’osservatorio solare californiano BBSO con l’uso di ottiche adattive per correggere le distorsioni dell’atmosfera terrestre, quest’immagine della fotosfera solare è tra le più nitide mai ottenute. Intorno alla macchia solare centrale, grande più della Terra, è visibile l’ininterrotto tappeto dei granuli che formano la superficie visibile del Sole. Ogni granulo è grande in media circa 1000 km. Credit: Big Bear Solar Observatory

La fase finale del meccanismo della convezione è chiaramente visibile sulla fotosfera solare, ininterrottamente agitata da strutture reticolari di varia grandezza (i già citati granuli). La materia più calda proveniente dall’interno del Sole appare più luminosa. Giunta alla superficie visibile, dove la trasparenza è nettamente maggiore, il calore in eccesso può essere disperso nuovamente per radiazione. In questo modo il plasma che arriva in superficie cede calore e si raffredda (le regioni più fredde della fotosfera appaiono, viste dalla Terra, meno luminose). Raffreddandosi si contrae, diventa più denso e tende ad affondare verso la base della zona convettiva. S’innesca in questo modo un ciclo continuo, che porta le celle meno dense, più calde e voluminose e salire verso la fotosfera, dove irradiano il calore in eccesso, e le celle ormai raffreddate a precipitare verso il basso per “ricaricarsi”.

La temperatura, che alla base della zona convettiva è di 2.000.000 K, precipita fino ai 5.777 K della fotosfera. La densità è qui di appena (2–3)×10⁻⁷ g/cm³, cioè intorno a un decimillesimo della densità dell’aria al livello del mare. A causa della bassissima densità generale, la zona convettiva, nonostante un raggio di quasi 200.000 km, contiene appena il 2,5% della materia solare.

La struttura interna del Sole. Credit: ESO (modificato)

Un perfetto termostato

Il Sole si trova in un mirabile stato di equilibrio. È un dato di fatto che ci è dimostrato dalla costante solare, la cui variazione, nel corso di oltre trent’anni di rilevazioni, non ha mai superato lo 0,5%. I dati geologici, dal canto loro, grazie per esempio alle prove dell’esistenza di acqua liquida sulla superficie terrestre fin dalle epoche più remote della storia del nostro pianeta, suggeriscono che questo equilibrio si sia conservato, con pochi sbalzi, per miliardi di anni.

Sembra quasi che una mano magica regoli la frequenza delle reazioni nucleari all’interno del Sole, in modo tale che l’energia prodotta sia esattamente quella necessaria, da un lato, a contrastare la spinta centripeta della gravità, e, dall’altro, a impedire aumenti indiscriminati e casuali della radiazione emessa.

Come è possibile tutto ciò? Dietro questo durevole equilibrio naturalmente non c’è alcunché di magico. È solo l’effetto della capacità naturale del Sole di funzionare come un perfetto termostato.

Il cuore del meccanismo sta nello stretto legame che esiste tra temperatura e frequenza delle reazioni di fusione nucleare: basta un lieve aumento della temperatura del nucleo per far aumentare notevolmente il ritmo degli eventi di fusione; una lieve diminuzione della temperatura, d’altro canto, ha l’effetto di abbattere drasticamente la loro frequenza.

Se, dunque, per una qualsiasi causa locale la temperatura nel nucleo comincia a salire, gli eventi di fusione si intensificano esponenzialmente. Il rapido incremento nella produzione di energia fa aumentare la pressione termica verso l’esterno. Si rompe così, almeno temporaneamente, l’equilibrio tra pressione interna e spinta centripeta della gravità e il nucleo si espande. Espandendosi, però, comincia anche a raffreddarsi. Il raffreddamento rallenta il ritmo di fusione, finché non si ristabilisce il preesistente equilibrio tra pressione termica e gravità.

Se l’equilibrio si rompe nella direzione opposta, se cioè la temperatura del nucleo comincia a scendere, la frequenza delle reazioni di fusione si abbatte drasticamente e non c’è più sufficiente pressione termica per contrastare la spinta della gravità. Il nucleo comincia allora a contrarsi. Ma la contrazione ne aumenta inevitabilmente la densità e la temperatura, con la conseguenza di far innalzare il ritmo di fusione fino a che la pressione termica verso l’esterno non riequilibra la forza con cui la gravità preme sul nucleo, ripristinando nuovamente l’equilibrio iniziale.

Il Sole funziona come un perfetto termostato naturale. Credit: Pearson 2004 (modificato)

Il Sole dunque contiene in sé non solo i mezzi per produrre energia per miliardi di anni, ma anche gli opportuni meccanismi di sicurezza che gli consentono di continuare a farlo con il ritmo adeguato. Può così conservare indefinitamente il proprio equilibrio idrostatico, cioè la condizione di inerzia di ogni suo punto, sottoposto all’azione di forze contrapposte (la gravità e la pressione termica) perfettamente bilanciate.

Riassumendo, il ritmo delle reazioni di fusione nucleare è mantenuto stabile nel tempo da quello che possiamo chiamare il “respiro” del nucleo solare: un gioco di espansioni e contrazioni che agisce come un meccanismo di feedback, compensando nel modo opportuno ogni variazione nella produzione di energia all’interno del Sole. L’equilibrio idrostatico viene immancabilmente ripristinato ogni volta che le condizioni locali facciano prevalere l’una o l’altra delle due forze che si contendono la stabilità del nucleo.

Se il nucleo si contrae, il raggio cresce

Si potrebbe pensare che la capacità di autoregolarsi come un termostato abbia consentito al Sole di splendere per miliardi di anni esattamente con la stessa energia, immutato nelle dimensioni e nella composizione interna. Ma non è così. Anche il Sole, come tutte le cose naturali, è soggetto a un’evoluzione scandita da cambiamenti, benché, nel suo caso, i cambiamenti si misurino sull’arco dei miliardi di anni: tempi inconcepibilmente lunghi per la durata ancora troppo breve della storia umana.

Ma anche i miliardi di anni, alla fine, passano. Ed è difficile credere quanto la nostra stella sia cambiata dalla prima accensione del suo motore a idrogeno fino a oggi. Quando il Sole approdò sulla sequenza principale oltre 4,5 miliardi di anni fa, quando cioè cominciò a “bruciare” regolarmente idrogeno nel nucleo, aveva solo il 70% della luminosità attuale ed era discretamente più piccolo (il raggio era sui 620.000 km, l’89% del valore corrente). Lo sappiamo dai modelli più aggiornati di evoluzione stellare, che sono in grado di estrapolare le condizioni fisiche del Sole in ogni epoca del suo sviluppo a partire dai parametri che conosciamo bene (raggio, luminosità, massa, età, composizione chimica della fotosfera).

Come ha fatto il Sole ad aumentare tanto di luminosità e dimensioni nel corso del tempo, pur trovandosi in quella lunghissima fase stabile della vita stellare che è la sequenza principale? La spiegazione si ricava dalla fisica dei gas e ha a che fare con le conseguenze dei processi di fusione nucleare che forniscono energia alla nostra stella. Ma per capire il meccanismo abbiamo bisogno di qualche informazione preliminare.

Come abbiamo visto, al di là della produzione di energia, il risultato netto delle reazioni della catena p-p è la trasformazione di idrogeno in elio. L’elio, che è più pesante dell’idrogeno, via via che viene prodotto si accumula al centro del Sole. Con l’andar del tempo, si modifica dunque in modo sostanziale la proporzione tra idrogeno ed elio all’interno del nucleo.

Ma qual era la situazione iniziale? Diversi studi sulle abbondanze degli elementi chimici sono relativamente concordi nell’attribuire al proto-Sole una composizione così ripartita:

  • idrogeno 71,5% della massa totale;
  • elio 27%;
  • altri elementi 1,5%.

Le versioni più recenti del modello solare standard ci dicono però che oggi, dopo oltre quattro miliardi e mezzo di anni di fusione nucleare ininterrotta, la situazione nel nucleo è radicalmente cambiata. Al centro del Sole la frazione di idrogeno è ormai solo del 34,6% mentre l’elio è al 63,3%: quasi il doppio. Al 5% del raggio solare l’idrogeno sale al 41,3% e l’elio scende al 56,6%. Dobbiamo arrivare al 10% del raggio solare perché il rapporto si inverta, con una frazione di idrogeno del 54,1% e una di elio del 43,8%. Ed è solo al 25% del raggio solare, cioè più o meno dove terminano le reazioni di fusione nucleare, che le frazioni di massa dei due elementi diventano simili alle abbondanze originarie (idrogeno 70,2%, elio 27,8%).

La proporzione di idrogeno ed elio nel nucleo solare secondo il modello solare standard. Credit: Michele Diodati e NASA/SDO (solo immagine del Sole)

Tutto ciò significa che, all’interno del nucleo solare, la massa molecolare media è oggi nettamente maggiore che all’inizio della sequenza principale (per massa molecolare s’intende il rapporto tra la massa di una data quantità di una sostanza e il numero di unità elementari, per esempio nuclei atomici, che la compongono). L’elio accumulatosi “pesa” infatti circa 4 volte più dell’idrogeno, dunque per una stessa frazione di massa composta di elio invece che di idrogeno il numero di nuclei atomici che la compongono è quattro volte minore.

Questo cambiamento nel nucleo solare ha delle conseguenze sulla pressione termica che bilancia la spinta della gravità e mantiene il nucleo in equilibrio idrostatico. Il plasma che forma il nucleo solare può essere considerato, infatti, dal punto di vista fisico come un gas ideale, la cui pressione termica P è direttamente proporzionale alla temperatura T e alla densità ρ (la lettera greca ‘rho’) ma inversamente proporzionale alla massa molecolare μ (la lettera greca ‘mu’), come si ricava dalla cosiddetta equazione di stato dei gas perfetti:

Senza addentrarci nei dettagli della formula, la cosa che ci interessa ai fini dell’evoluzione del Sole è che il progressivo aumento della massa molecolare media del nucleo fa diminuire la pressione termica verso l’esterno (la pressione di radiazione, un altro fattore che contribuisce a controbilanciare la gravità, può essere trascurata nel caso del Sole, perché vale non più dell’1% della pressione totale diretta verso l’esterno).

Ma la massa solare che insiste sul nucleo è sempre la stessa, dunque si crea uno squilibrio tra gravità e pressione termica, a vantaggio della gravità. La conseguenza è che il nucleo, o almeno la parte di esso in cui domina l’elio, si contrae sotto la spinta della gravità, diventa più piccolo. È un fenomeno controintuitivo: l’accumulo di una massa maggiore (a causa della frazione ora dominante di elio), invece di causare l’espansione del volume che la contiene, ne causa la contrazione.

In seguito alla contrazione, la densità della materia nel nucleo aumenta e finisce per innalzarsi anche la temperatura. Poiché le reazioni di fusione della catena p-p aumentano con la quarta potenza della temperatura, ne consegue una crescita esponenziale della produzione di energia e quindi della luminosità. Così l’equilibrio idrostatico si ristabilisce nuovamente e in modo molto veloce. Ma stavolta a spese di un cambiamento definitivo della stella: l’aumento della luminosità e del raggio totale (e dunque del volume e della superficie esterna). In sostanza la stella cresce di dimensioni per avere una maggiore superficie da cui irradiare la maggiore quantità di energia prodotta al suo interno, in conseguenza dell’aumento della temperatura del nucleo.

Il Sole appena approdato sulla sequenza principale aveva il 70% della luminosità attuale e l’89% del raggio. L’aumento delle dimensioni e della luminosità con il procedere del tempo trascorso sulla sequenza principale sono una conseguenza della progressiva contrazione del nucleo, dovuta all’aumento della massa molecolare media. Credit: Michele Diodati

La differenza con la funzione di “termostato” descritta in precedenza è che l’aumento della massa molecolare media dovuto alla trasmutazione dell’idrogeno in elio è un cambiamento irreversibile. Dall’elio non può venir ricreato l’idrogeno: non c’è modo di riportare il nucleo alle condizioni originarie (anche se possono avvenire occasionalmente dei fenomeni di rimescolamento che cambiano le proporzioni locali tra massa di idrogeno e massa di elio).

Pertanto, con il passare dei miliardi di anni una stella di sequenza principale come il Sole evolve inevitabilmente in modo da avere un nucleo via via più piccolo, più denso, più caldo e più massiccio, composto prevalentemente da elio, mentre il resto della stella, a causa del progressivo incremento della produzione di energia, diventa via via più grande, più luminoso e meno denso.

Fuori dalla zona abitabile!

Una cosa che per ora nessuno riesce a spiegare è come sia stato possibile per la proto-Terra mantenere temperature medie tutto sommato non molto diverse da quelle attuali in un’epoca in cui il Sole era tra il 20 e il 30% meno luminoso di oggi. Eppure i dati climatici ricavabili dagli indicatori geologici testimoniano che senza alcun dubbio, oltre tre miliardi di anni fa, vi era acqua liquida in superficie; e i fossili più antichi mostrano che esistevano specie di batteri in tutto simili ai loro discendenti che popolano attualmente il pianeta.

Un’ipotesi piuttosto diffusa è che la Terra delle origini fosse molto più “abile” di oggi nell’intrappolare il calore ricevuto dal Sole. Ciò a causa, forse, di una minore copertura nuvolosa generale (il bianco delle nuvole riflette nello spazio una notevole quantità di radiazione incidente) oppure per una maggiore presenza di gas serra nell’atmosfera: metano, anidride carbonica, vapore acqueo. O per una combinazione di entrambi i fattori. Non lo sappiamo. Quel che è certo è che tutti i modelli di evoluzione stellare concordano sulla minor luminosità del giovane Sole, mentre, d’altro canto, sappiamo che la vita, sia pure unicellulare, ha attecchito e prosperato sul nostro pianeta fin da epoche remotissime.

Ma, se questo ipotetico effetto serra primordiale ebbe conseguenze positive per la vita sulla Terra, quello che ci sarà da qui a un miliardo di anni avrà invece un effetto catastrofico, tale da far impallidire i cambiamenti climatici in atto negli ultimi decenni. Secondo uno studio pubblicato nel 2008, la luminosità media del Sole cresce a un ritmo dell’1% ogni 110 milioni di anni. Ciò vuol dire che entro più o meno un miliardo di anni a partire da ora la Terra sarà investita stabilmente da una quantità di calore maggiore del 10% di quella attuale.

Questo sbalzo di temperatura ci porterà fuori dalla cosiddetta zona abitabile, cioè quella regione di spazio orbitale all’interno della quale l’irradiazione solare è tale da consentire la presenza di acqua liquida sulla superficie di un pianeta roccioso come la Terra. Al momento presente, alla distanza di 1 unità astronomica dal Sole, ci troviamo presso il margine interno della zona abitabile, che, per il sistema solare, si estende tra 0,95 e 1,37 unità astronomiche. Quel 10% di radiazione in più sposterà il margine interno della zona abitabile oltre la nostra distanza orbitale media di 1 unità astronomica, esponendo la Terra al rischio di sviluppare condizioni climatiche paragonabili a quelle di Venere.

La prima conseguenza sarà un effetto serra umido di portata planetaria: gli oceani e i mari evaporeranno e l’atmosfera si riempirà di vapore acqueo. Poi la radiazione ultravioletta farà il resto: il vapore acqueo verrà scisso in OH e atomi di idrogeno libero, i quali, grazie alla loro leggerezza, sfuggiranno a poco a poco nello spazio esterno, non più trattenuti dalla gravità. Così la massa di vapore acqueo nell’atmosfera a poco a poco si dissolverà del tutto, lasciando un pianeta arido e bruciato dal Sole. Marte, nel frattempo, acquisterà un clima più temperato e, dunque, se nei milioni di anni precedenti la catastrofe saremo riusciti a terraformare il pianeta rosso, quella sarà la nuova casa verso cui l’umanità superstite, volente o nolente, dovrà trasferirsi.

Non possiamo conoscere fin da ora i dettagli esatti del processo che renderà la Terra inabitabile. Ci sono troppe variabili in gioco e non abbiamo la capacità di prevedere la loro evoluzione ed interazione reciproca: non sappiamo quale sarà l’effetto combinato di:

  • copertura nuvolosa;
  • quantità e tipo di gas serra nell’atmosfera;
  • capacità del pianeta e della biosfera di mettere in atto meccanismi in grado di attutire e ritardare il processo di riscaldamento globale.

Ma quel che è certo è che la luminosità solare crescerà in modo inesorabile e arriverà senz’altro il momento in cui la vita su questo pianeta sarà divenuta impossibile. Una scadenza tragica, ma inevitabile!

Il Sole, intanto, del tutto indifferente al nostro destino, proseguirà il suo cammino sulla sequenza principale, continuando ad accumulare elio nel nucleo, ad espandersi e ad aumentare la sua temperatura superficiale e il calore irradiato.

All’età di 7,13 miliardi di anni (cioè fra circa 2,5 miliardi di anni), raggiungerà la sua temperatura superficiale più elevata: 5820 K, a fronte dei 5777 K odierni. Il raggio sarà allora 1,11 volte il raggio attuale (772.500 km invece di 696.000), mentre la luminosità sarà cresciuta di oltre un quarto. Fortunatamente ci saremo già estinti — o saremo emigrati altrove — da almeno un miliardo e mezzo di anni.

Alla fine della sua permanenza sulla sequenza principale, cioè all’età di 10 miliardi di anni, il Sole raggiungerà un raggio maggiore del 37% rispetto a quello attuale: ben 953.000 km! A quell’epoca, ma già da molto tempo prima, dalla Terra non saranno più visibili eclissi totali: il diametro angolare del Sole sarà diventato, infatti, talmente grande da non poter essere più oscurato completamente dal disco della Luna. Se mai ci sarà qualcuno sulla Terra a osservare lo spettacolo, vedrà solo un’occultazione parziale, al culmine della quale apparirà un brillantissimo anello solare intorno al disco scuro della Luna. Il Sole avrà intanto raggiunto una luminosità superiore dell’84% a quella odierna, anche se la temperatura della fotosfera sarà leggermente calata a 5751 K, in virtù del notevole aumento della sua superficie.

La variazione nell’estensione della zona abitabile tra il presente (4,57 miliardi dall’inizio della sequenza principale) e l’epoca in cui, fra più di 5 miliardi di anni, terminerà la sequenza principale. Il Sole sarà allora molto più luminoso e grande di adesso. Ma la Terra raggiungerà il margine interno della zona abitabile, e quindi la fine di ogni possibilità di vita sul pianeta, già fra un miliardo di anni. Credit: Michele Diodati

La fine della sequenza principale coinciderà con l’esaurimento delle scorte utili di idrogeno nella zona centrale del nucleo. Comincerà allora la fase finale della vita del Sole: un caotico e movimentato susseguirsi di espansioni e contrazioni, che lo porteranno a diventare prima una gigante rossa e infine una nana bianca. Ma questa lunga e intricata storia sarà materia per un prossimo articolo.

Quanto dura la sequenza principale?

Concludiamo con una curiosità. Tutti gli autori concordano nell’indicare la durata della permanenza del Sole sulla sequenza principale in dieci miliardi di anni. Ma come si arriva a questa cifra?

Si parte dall’assunto che l’idrogeno utilizzabile nel nucleo per le reazioni di fusione sia il 10% della massa totale del Sole, cioè 1,988×10²⁹ kg (la massa totale è, lo ricordiamo, 1,988×10³⁰ kg). Il passo successivo consiste nel calcolare quanta energia può essere prodotta con le reazioni della catena p-p convertendo completamente questa massa di idrogeno in elio. Sappiamo che la massa convertita in energia è solo lo 0,71% del totale e che dobbiamo moltiplicarla per il quadrato della velocità della luce, se vogliamo conoscere l’energia generata dal Sole durante l’intera sequenza principale. Svolgiamo dunque i calcoli appropriati:

(0,0071)(1,988×10²⁹ kg)(2,997×10⁸ m)²

Il risultato è una quantità di energia spaventosa: 126.800.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000.000 joule. Ricorrendo alla notazione scientifica, la sfilza di zeri lascia il posto a una rappresentazione più compatta e comprensibile di questo immenso numero: 1,268×10⁴⁴ J, 126,8 settilioni di joule. Sarà questa la produzione totale (presuntiva) di energia da parte del Sole durante l’intera sequenza principale.

Ma quanto dura infine questa benedetta sequenza principale? Per saperlo, non ci resta che dividere l’energia totale prodotta dal Sole per l’energia emessa in un secondo, che già conosciamo:

1,268×10⁴⁴ J / 3,827×10²⁶ J

Ne ricaviamo una durata totale di 3,311×10¹⁷ secondi. Poiché un anno contiene 3,154×10⁷ secondi, un’ultima divisione ci indicherà la durata in anni della sequenza principale. Il risultato che otteniamo è 1,05×10¹⁰, cioè poco più di dieci miliardi di anni, in buon accordo con il valore indicato dalla quasi totalità delle fonti.

È quasi inutile ricordare che si tratta di una durata approssimativa: non tiene conto della variazione di luminosità del Sole durante il lungo attraversamento della sequenza principale e assume che la quantità di idrogeno utilizzabile per la fusione corrisponda esattamente al 10% della massa attuale. Ma è la migliore predizione di cui disponiamo sulla durata complessiva della fase principale della vita della nostra stella.

Non potevamo concludere questa lunga “abbuffata” di numeri senza una ricca tabella riassuntiva. Può servire per dare uno sguardo d’insieme ai principali parametri solari descritti nei paragrafi precedenti, ma forse anche per tenere a mente quanto la nostra esistenza sia continuamente e indissolubilmente legata, nel bene e nel male, ai numeri che regolano i complessi meccanismi di funzionamento del Sole.

Credit: Michele Diodati

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Michele Diodati

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.